Religione, La grande promessa: le beatitudini del discepolo
di Il capocordata
Le otto “beatitudini” di Matteo (5, 1-12a) ci si presentano come otto frecce scagliate al bersaglio del bene ultimo e provocano realmente un vero stato di tensione spirituale. La promessa della felicità non riguarda indiscriminatamente tutti, ma si rivolge a categorie ben determinate, trasformandosi così in un vero e anticipato giudizio finale.
Nelle beatitudini si sente vibrare l’originale immediatezza della proclamazione di Gesù, il suo incondizionato annuncio della salvezza. E’ ai poveri, agli affamati e ai piangenti, è a queste persone che viene annunciata la salvezza. Esse sono una proclamazione assoluta e incondizionata a quanti hanno un cuore oppresso: voi che soffrite, oppressi dalla povertà, dalle angustie, dalla fame, non rattristatevi più: il Regno è vostro, ed è per questo che voi siete beati. Siamo di fronte ad un semplice, caloroso e confortante annuncio di salvezza. Dio si curva sulla miseria umana, e salva.
“Beati i poveri”. Nella Scrittura con il termine “poveri” non si intende riferirsi certo a persone virtuose, spinte da un’interiore ispirazione a rinunciare ai beni terreni; ma piuttosto a creature affrante dal dolore e dalla miseria, sulle quali Dio si curva con infinita pietà per annunciare la salvezza messianica. La categoria dei “poveri” si definisce meglio nella sua fisionomia religiosa: privi di beni e di sicurezza, oppressi, messi al margine della società e respinti, hanno imparato la fiducia in Dio, l’abbandono alla sua misericordia, l’attesa da lui solo della salvezza.
Il termine “povero”, partito da una situazione concreta e senza mai perderla di vista, è andato affinandosi e spiritualizzandosi, sino a definire l’atteggiamento religioso di creature che, consapevoli della terrena miseria, fanno di questa costatazione fondamento di speranza nella divina bontà. Il “povero” è la persona che soffre, umile, che si sente perduta e abbandonata nella vita, che ripone la sua fiducia solo in Dio e spera da lui la salvezza. A queste creature per le quali un divino intervento di salvezza è urgente, Gesù annuncia la “beatitudine” messianica: a tutti gli uomini, che, delusi dal limite e dalla miseria della vita presente, capiscono di non poter attendere una speranza se non in Dio.
“Beati gli afflitti”. Nell’afflizione e nel pianto troviamo la nostra consolazione in Dio. Nella Scrittura leggiamo che il “servo” del Signore è inviato non soltanto ad annunziare la lieta novella ai poveri, ma anche a consolare tutti gli afflitti. Siamo beati non perché siamo afflitti a causa delle avverse circostanze della vita, ma perché in esse abbiamo in Dio la nostra consolazione.
“Beati i miti”. Per contrastare l’oppressione e la persecuzione, la beatitudine consiglia la bontà; e non come regola di saggezza, bensì del tutto ad imitazione dell’esempio di Cristo “mite e umile di cuore”. Ai miti appartiene la terra, cioè la felicità piena, che mai finisce, su questa terra e nella vita eterna.
“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”. In Matteo, “giustizia” va identificata con l’agire richiesto all’uomo, con il volere di Dio che egli deve adempiere, in concreto con le esigenze presentate da Gesù in particolare nel discorso della montagna. Chi si adopera intensamente per “la giustizia” ha bisogno di una spinta interiore, di una motivazione: senza dubbio essa è data con Gesù, con la sua venuta, con la sua parola, col suo esempio. L’appagamento e la felicità concessi all’uomo che brama e cerca la giustizia consistono nella salvezza divina, “saranno saziati” dalla gioia piena che proviene solo da Dio.
“Beati i misericordiosi”. Questa beatitudine è caratterizzata da una letterale corrispondenza tra agire umano e ricompensa divina. Usare misericordia, secondo la concezione biblica, spetta in primo luogo a Dio; nel Vangelo si parla di misericordia di Dio o di Gesù. Quando a più riprese e con insistenza esige dagli uomini la misericordia, l’evangelista invita così all’imitazione di Dio o di Gesù, a cui coloro che chiedono aiuto si rivolgono gridando: “Abbi pietà di me!”. “Misericordia io voglio, non sacrifici”, afferma Gesù di fronte a una condotta senza misericordia, come quella che in modo impressionante è rappresentata anche nella parabola del servo spietato (18, 33).
“Beati i puri di cuore”. Il cuore puro, sede dei sentimenti e dei desideri, corrisponde all’animo limpido e sincero, alla coscienza innocente: essi vedranno Dio. La visione di Dio quale definitiva beatificazione dell’uomo corrisponde ad un’attesa di tutto il cristianesimo.
“Beati gli operatori di pace”. La pace costituisce la sintesi della salvezza ed è quindi realizzabile solo da Dio. Il discepolo può solo annunciare questa pace. La pace realizzabile dagli uomini non si identifica con la pienezza della pace/salvezza; tuttavia sta con quest’ultima in un intimo rapporto per il fatto che porta lo stesso nome; è per così dire una parte dell’effetto terreno della pace donata da Dio all’uomo. Si intende la parte attiva dei destinatari della beatitudine nell’attuare la conciliazione, l’accordo e la pace anzitutto tra di noi. La pace è caratteristica propria di Dio, che vuole condurre gli uomini sulle vie della pace. Chi si fa operatore di pace tra gli uomini partecipa della peculiarità di Dio: ne consegue che sarà chiamato figlio di Dio.
“Beati i perseguitati”. Sono coloro che si adoperano per la pace ad essere perseguitati a causa della giustizia, a causa della fede in Cristo. Ad essi appartiene il regno dei cieli. La persecuzione è il costante e necessario contrassegno del discepolo di Gesù. I discepoli oppressi sono consolati con la prospettiva di una grande ricompensa celeste. La persecuzione collega il destino dei discepoli col destino di Gesù: se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!
Bibliografia consultata: Làconi, 1971: Gnilka, 1990.