Religione, la legge nuova: una giustizia superiore
di Il capocordata
L’evangelista Matteo (5, 17-37), nel discorso programmatico di Gesù, ci presenta il Maestro come un “novello Mosè che “dà compimento” alla Legge, facendole raggiungere la pienezza della dimensione voluta da Dio, cioè la carità. Questa è il vertice di tutte le leggi, le riassume tutte, ne ordina il dinamismo, le gerarchizza, propone alla loro molteplicità di raggiungere questo fine supremo. Il discepolo si vede giudicato non in base alle opere, ma innanzitutto nel cuore: nel cuore dell’uomo si trova il centro dell’attività morale, è il cuore, la sede delle azioni, dei pensieri e dei sentimenti, che deve essere convertito al Vangelo. La Legge antica era imperfetta, non perché non esprimesse la volontà di Dio, ma perché la esprimeva imperfettamente: accumulando le pratiche religiose, intralciando la Legge con le tradizioni degli uomini, i farisei erano giunti a misconoscere la Legge in quanto espressione della volontà di Dio. Per questo Gesù afferma: ”se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli”(v. 20).
“Fu detto…ma io vi dico” (vv.21-37). Il testo apre la serie delle sei antitesi: esse mostrano in quale modo Gesù con la propria dottrina dà compimento alla legge e ai profeti e supera di gran lunga la giustizia degli scribi e dei farisei.
Riconciliazione invece dell’omicidio e dell’ira. Viene citato in primo luogo il quinto comandamento del Decalogo: “Non uccidere”. L’ A.T. puniva l’assassinio con la pena di morte. “Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello…” (v. 22). L’antitesi prevede il tribunale già per quelli che si adirano. Ma l’ira non è perseguibile e persino non sempre riconoscibile all’esterno. Il tribunale di cui ora si parla non è più il tribunale terreno, ma quello divino. Il divieto del quinto comandamento ovviamente rimane, ma deve essere allargato a un rapporto fraterno tra gli uomini. Questo rapporto fraterno non si attua impedendo l’omicidio, ma è fondato su ciò che si pensa dell’altro, su ciò che gli si augura e si vorrebbe vedergli assegnato. Perfino l’insulto al fratello diventa perseguibile: esso, infatti, è il primo risultato dell’ira e il grado intermedio tra l’ira e l’omicidio. Per questo, nel momento di offrire un sacrificio nel tempio di Dio, bisogna riconciliarsi con il fratello offeso, perché la preghiera produca i suoi benefici.
“Non commettere adulterio… ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio nel suo cuore” (vv.27-28). La presa di posizione di Gesù proibisce lo sguardo di compiacenza, definendolo già adulterio. Gesù, in tal modo, non solo tutela il matrimonio ma pronuncia una parola a favore dell’integrità e della dignità della donna, che in una società dominata dagli uomini era la parte di gran lunga più debole. Il matrimonio può essere già infranto nel cuore: la richiesta di Dio esige tutto l’uomo; non solo il suo comportamento esteriore, ma anche la sua disposizione intima. L’una cosa non può essere pensata senza l’altra.
Anche per l’antica legge del “ripudio” (divorzio), Gesù vuole ricondurre la legge all’originale condizione dell’amore coniugale e all’indissolubilità del vincolo suggellato dalla grazia di Dio. L’attenzione dunque non è posta semplicemente sulla gravità del ripudio, ma sull’importanza della condizione originaria dell’amore benedetto da Dio nel matrimonio, sulla grazia che ne deriva dal compromettersi del Signore con gli sposi nel vincolo matrimoniale e che è la forza per la perseveranza nel dono reciproco di sé.
“Sia invece il vostro parlare: sì, sì; no, no. Ciò che va oltre viene dal maligno” (v. 37). Gesù proibisce ogni tipo di giuramento, perché non si vuole profanare il nome di Dio. La critica si fonda, in definitiva, sul secondo comandamento, che vieta il giuramento vacuo e menzognero in nome di Dio. Il divieto di giuramento imposto da Gesù si propone di garantire la santificazione del nome divino. Gli scribi e i dottori della legge distinguevano tra formule di giuramento vincolanti e altre meno vincolanti. L’evitare il nome di Dio offriva una scappatoia per l’insincerità: l’uomo deve sempre essere sincero, questa è l’istanza delle parole di Gesù.
I giuramenti ritenuti minori non sono inferiori al giuramento nel nome di Dio, dal momento che anch’essi hanno a che fare con Dio: il cielo è il trono di Dio, la terra è lo sgabello dei suoi piedi! L’esigenza della veridicità è elemento necessario di una critica radicale al giuramento. L’ampiezza di tale esigenza risulta evidente dal fatto che l’affermazione di Gesù a non giurare affatto richiede tanto la veridicità davanti agli uomini quanto la veridicità davanti a Dio.
Chi non rimane trasparente nel parlare si lascia coinvolgere dal Maligno e assume il suo stesso atteggiamento di menzogna e di compromesso nel mascherare o nascondere la verità. La Legge prevede di non pronunciare il falso, ma l’amore, ancora di più, chiede l’onestà del cuore che, a sua volta, garantisce la fedeltà alla verità e l’inutilità del giuramento per dare autorità e garanzia alla propria parola.
Gesù, dunque, riporta alla sua forma originale la Legge, riconducendola alla finalità per cui era stata donata al popolo di Israele, quella cioè di fondare la relazione di alleanza tra Dio e il suo popolo in un rapporto di reciproco amore e fedeltà. In questo sovrappiù di amore consiste il superamento della giustizia richiesto per entrare nel regno dei cieli e al quale si riferisce Gesù nell’introdurre il tema della giustizia divina fondata sulla misericordia e sull’amore.
Bibliografia consultata: Deiss, 1972; Gnilka, 1990; Corini, 2017.