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Religione, la Passione secondo Matteo

Solo il racconto matteano della passione (cc. 26 e 27) inizia con un detto di Cristo: “Sappiate che tra due giorni viene la pasqua. E il Figlio dell’uomo viene consegnato per essere crocifisso” (26, 2). L’attività pubblica di Gesù è conclusa: ciò viene annunciato ai discepoli in maniera solenne. Ciò che devono sapere non è semplicemente che è vicina la pasqua, ma anche che si tratta di una pasqua particolare nella quale il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso. Si può supporre che Matteo abbia inteso Cristo come il vero e proprio agnello pasquale.

Gli antagonisti entrano in azione: “Allora, i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo…deliberarono di catturare Gesù con l’astuzia e di ucciderlo” (26, 4). Essi sono agenti di secondo ordine: Gesù è del tutto consapevole della necessità del suo cammino. L’astuzia consiste nell’ intenzione di evitare il giorno di festa, a causa del popolo: ma la cosa sconcertante è che Gesù sarà catturato e giustiziato durante la festa. A operare è qualcuno che sta più in alto: Gesù muore a pasqua. Si intrecciano l’elemento divino e l’elemento umano, la conduzione divina e la colpa umana.

“Quanto volete darmi? E io ve lo consegnerò” (26, 15). Nella passione fa la sua comparsa Giuda Iscariota, uno dei Dodici. Separandosi dai discepoli, Giuda cerca di ricavare denaro da questo suo passo. Nel dire ai sommi sacerdoti che “consegnerà” Gesù, Giuda è strumento di uno che sta più in alto: la colpa umana e la volontà divina agiscono insieme in una maniera per noi incomprensibile.

“Questo è il mio corpo…questo è il mio sangue” (26, 26-27). Durante l’ultima cena, Gesù porge ai discepoli il pane. L’accento è posto sullo spezzare il pane e quindi sui pezzi di pane che vengono portati ai convitati. L’invito a prendere e a mangiare richiama l’attenzione sulla peculiarità di questo pane. Gesù resta presenta nel pane, il pane lo rappresenta, poiché egli ora si accinge ad affrontare la morte: questo pane è il suo corpo. Se viene portato il sangue, ciò significa che diviene presente colui che sta per concedersi alla morte: “versare” viene ripetutamente usato per indicare lo spargimento del sangue delle vittime. Il patto nuovo fondato sulla morte di Gesù supera quello antico perché è universale, per tutti i popoli. La partecipazione al banchetto eucaristico conferisce ai partecipanti la comunione personale con il Cristo che muore, consentendo loro di godere dei suoi frutti salvifici, tra cui la remissione dei peccati.

“L’anima mia è estremamente triste fino alla morte” (26, 38). Gesù raggiunge il Getsemani (torchio per l’olio), che si deve immaginare come un podere o una tenuta posta sul Monte degli Ulivi. Tristezza e angoscia assalgono Gesù di fronte alla sofferenza incombente. Gesù che si avvia verso la sua sofferenza non è presentato come un eroe: un falso eroismo è ben lontano dalla passione. Gesù nella sua sofferenza si dimostra uomo. Allontanatosi un po’, Gesù si prostra sul suo volto e prega il Padre celeste: egli chiede che sia allontanato da lui il calice del dolore, “tuttavia , non come voglio io, ma come vuoi tu” (v. 39). Gesù accetta il calice dell’ira divina, destinato ai malfattori, e compie così la sua opera di espiazione.

“Salve, rabbi! E lo baciò. Amico, per questo sei qui” (v. 49). Giuda compare nella notte del Getsemani, accompagnato da una rappresentanza armata dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo: ora è arrivata l’occasione buona di consegnar loro Gesù. Il bacio di Giuda ha una sua caratterizzazione particolare nel fatto che serve da segno: si tratta di individuare Gesù nella notte, senza possibilità di equivoci. Nella constatazione di Gesù non c’è né delusione né indignazione; in essa anzi si possono intravedere la preconoscenza e il consenso di Gesù. Gesù accetta l’azione di Giuda, nelle cui conseguenze per lui egli riconosce la volontà del Padre.

“Non conosco l’uomo; e subito il gallo cantò” (v. 74). Benché Pietro fosse stato presentato come il garante del Vangelo, il nostro evangelista non lo ha risparmiato. La scena potrà essere colta soltanto se si considera che essa si intreccia col processo di Gesù. L’evangelista assimila il testo della domanda del sommo sacerdote alla professione di fede di Pietro. In tal modo il confronto Gesù/Pietro assume contorni ancor più netti. Gesù subentra per così dire al posto del suo discepolo. Egli fa la confessione che Pietro, proprio nel medesimo momento, avrebbe dovuto pronunciare. Egli rinnega, si distacca e maledice se stesso. Fallimento dell’uomo e grazia divina sono i punti di aggancio per la trasmissione del testo nella predicazione. L’azione di Dio vince l’atteggiamento di chi lo rinnega, e lo fa come perdono della colpa, come chiamata dell’indegno. E’ stata proprio questa esperienza a consentire a Pietro di diventare il primo testimone della risurrezione. Forse il ricordo terribile della croce non sarebbe riuscito a renderlo sufficientemente zelante. Ma Pietro serbava anche un altro ricordo, quello del rinnegamento, che gli rammentava la stessa croce. Era impossibile dimenticare di nuovo ciò che egli aveva vissuto: era impossibile che la sua testimonianza non ne parlasse.

“E lo condussero via per crocifiggerlo” (27, 31). L’impotenza e l’abbandono in cui si trova il Crocifisso sono al centro della storia dell’interpretazione della morte di Gesù: egli eleva il lamento davanti al suo Dio. Inchiodando Gesù alla croce, lo si tratta come un empio. Il Crocifisso autentica il suo messaggio; il suo annuncio del regno dei cieli e la sua proclamazione di Dio come Padre acquistano credibilità perché egli ha sofferto la passione con il suo Dio e per il suo Dio. Così Dio si è schierato con lui nella risurrezione.                                                                               

Bibliografia consultata: Gnilka, 1991.       

Redazione

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