Quello tra Erode e Gesù è lo scontro fra due sovranità o, meglio, tra due modi opposti di intendere il potere. Il despota che ha ottenuto la corona con la forza e la mantiene con un regime oppressivo è agli antipodi rispetto al re umile, il sovrano pastore discendente di Davide al quale i capi delle tribù d’Israele avevano riconosciuto il diritto a regnare (2Sam 5, 2). C’è una differenza abissale tra colui che per conservare il potere non si fece scrupolo di eliminare persino mogli e figli e colui che per la salvezza del suo popolo diede la sua vita.
Dobbiamo sempre tenere presente che l’evangelista descrive gli eventi dell’infanzia in prospettiva rispetto al successivo ministero di Gesù. Perciò non è difficile leggere nell’opposizione di Erode un’anticipazione di quella che metteranno in atto le autorità religiose con Gesù adulto. In apparenza si potrebbe dire che essi riescono laddove Erode aveva fallito, perché se i piani omicidi del vecchio monarca vanno a vuoto grazie alla fuga in Egitto (Mt. 2, 13), i capi dei sacerdoti ottengono che Gesù venga inchiodato alla croce. Ma sappiamo bene che la risurrezione vanifichi questo tentativo di sbarazzarsi di lui.
“Giuseppe, àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto…Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (v. 13). Il sogno che fa Giuseppe avviene di notte ed egli non perde tempo nel mettere in atto il comando datogli dall’angelo. L’elemento precipuo della storia è la sollecitudine con cui Giuseppe obbedisce agli ordini divini e dimostra il suo zelo verso moglie e figlio. Pur con la diversità di situazioni, si dimostra all’altezza del patriarca di cui porta il nome. Come il figlio di Giacobbe si prese cura della sua famiglia in Egitto per sfuggire alla carestia che imperversava in Palestina, così il nostro Giuseppe fa emigrare la sua famiglia in terra egiziana per scampare alla furia di Erode.
Il ritorno in madrepatria avviene con ogni probabilità poco dopo la morte di Erode, datata al 4 a.C. A quel tempo Gesù era ancora un fanciullo e quindi l’influenza che può aver esercitato la permanenza in Egitto sulla sua formazione culturale e spirituale è assai scarsa. Il brano si conclude poi con lo spostamento della Santa Famiglia a Nazaret, che è spiegato dall’evangelista attraverso una citazione di compimento tratta dall’A.T.: “si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: Sarà chiamato Nazareno” (vv. 22-23). Con questa espressione gli studiosi indicano un modo peculiare di Matteo di riportare dei brani dell’A.T. di cui vede la realizzazione in una evento della vita di Gesù. In questo modo viene assicurata la continuità tra le profezie conservate nella Scrittura e le vicende del Messia.
Giuseppe porta la sua famiglia a Nazaret per motivi precauzionali, in un luogo che non fosse sotto la giurisdizione di Archelao, figlio di erode il Grande. E che i timori di Giuseppe nei confronti del nuovo regnante non fossero del tutto infondati lo dimostra la notizia dello storico giudeo Giuseppe Flavio che attribuisce al giovane re la carneficina di non meno tremila manifestanti in occasione di un tumulto scoppiato durante la Pasqua. Giuseppe fu lungimirante e con questo trasloco prudente mise al sicuro la sua famiglia.
Colui che è entrato nella famiglia umana non è stato sottratto né lui, né i suoi alle vicende della storia, alle prove dolorose che comportano la fuga, la paura per la propria incolumità, i disagi legati a una situazione in cui si è stranieri e per di più vulnerabili, vittime designate della penuria e dello sfruttamento. A Giuseppe, a Maria e a Gesù tutto questo non è stato risparmiato, così come è accaduto e continua ad accadere a tanti nuclei familiari di ieri e di oggi.
Che cosa li ha sostenuti? La fiducia in Dio che accompagna i poveri, che li sostiene e orienta con la sua parola nei diversi frangenti che devono affrontare. Non possono contare sui loro beni, sulle proprie risorse. Sballottati qua e là dai potenti della terra, hanno, però, Qualcuno a cui stanno a cuore. E il racconto ci mostra le loro vicissitudini come un luogo di obbedienza alla parola che li raggiunge. Il loro approdo finale è un villaggio oscuro, mai menzionato finora, che costituirà l’ambiente di gran parte dell’esistenza di Gesù. Là egli sperimenterà le fatiche e le pene della gente, le angustie e le piccole gioie. L’Incarnazione non è una passeggiata, ma la scelta di condividere fino in fondo l’esistenza dei poveri.
Gesù, la tua non è proprio un’esistenza dorata, da privilegiato. Tu partecipi ai drammi di tante famiglie costrette alla fuga dalla tracotanza dei dittatori, dall’oppressione dei ricchi, da condizioni impossibili segnate dalla penuria, dalle malattie, dalla mancanza di un futuro diverso. Mentre guardiamo con tenerezza alla tua immagine nel presepe, tu ci ricordi che sei vivo e presente nella carne martoriata di tanti uomini e donne, che affrontano pericoli e rischi di ogni genere, imbarcandosi in un viaggio motivato dalla disperazione, ma aperto alla speranza di un avvenire.
Tu ci offri la possibilità di rivestire lo stesso ruolo di Giuseppe, per obbedire alla tua parola, per fare la tua volontà, superando tutte le paure e i pregiudizi che continuano a paralizzarci. Tu ci richiami alle nostre responsabilità perché soccorriamo tanti fratelli e sorelle della cui sorte un giorno ci chiederai conto. E ci ricordi che il futuro dell’umanità passa attraverso di loro e non per i nostri progetti di grandezza.
Bibliografia consultata: Carrega, 2019; Laurita, 2019.
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