Religione, la vita non dipende dai beni accumulati
di Il capocordata
Il brano odierno (Lc. 12, 13-21) si apre con la domanda di un anonimo personaggio che, dalla folla, si rivolge a Gesù:”Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità” (v. 13). Di per sé si tratta di una richiesta pertinente, poiché i “rabbi”, nella società giudaica del tempo, erano autorizzati a risolvere tali questioni. Gesù risponde: O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (v. 14). Il Maestro si rifiuta di fomentare il conflitto tra i due fratelli, svelando il male insidioso che serpeggia dietro alla domanda dell’anonimo interlocutore: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede” (v. 15).
Gesù ha intuito che a provocare il contenzioso tra i due fratelli non era l’esigenza, tutto sommato legittima, della giustizia distributiva, ma piuttosto il desiderio smodato dell’accaparramento, che corrisponde alla voglia di possedere più degli altri, di avere maggiori privilegi che rendono l’uomo schiavo delle proprie ambizioni. Per questo motivo il Maestro invita gli uditori a non cedere all’illusione che vorrebbe vedere nell’abbondanza dei beni la fonte di ogni sicurezza. Il Gesù di Luca è consapevole che la cupidigia nasconde una grande fragilità, ovvero il timore di non avere abbastanza per vivere, come se la vita dipendesse solo dai beni materiali.
Sappiamo che questo è uno dei temi più cari all’evangelista Luca, tanto che vi ritorna più volte sia nel Vangelo che negli Atti degli Apostoli, laddove ribadisce che i discepoli devono vivere un sano distacco nei confronti della ricchezza, la quale in se stessa non è negativa, ma può diventarlo quando finisce per costituire la principale preoccupazione dell’uomo. Quando i cristiani sono motivati dal regno di Dio e non dalla paura della mancanza, pervengono a un rapporto giusto con il denaro. Sanno che un minimo vitale è loro indispensabile, non foss’altro che per testimoniare il Vangelo, ma dispongono liberamente del resto. Non dimenticano nemmeno che il superfluo tende fatalmente a sembrare ai loro occhi indispensabile quando soccombono alla tentazione.
“Poi disse loro una parabola” (v. 16)
La parabola di un uomo ricco, di carattere eminentemente sapienziale, sviluppa ulteriormente il tema relativo all’inganno della ricchezza. Protagonista della storia è un uomo ricco e particolarmente fortunato, perché i suoi terreni ancora una volta hanno prodotto una messe abbondante. Ricorrendo all’espediente letterario del monologo, il cui scopo è di svelare i pensieri più intimi e le intenzioni di un personaggio, Luca mostra come l’uomo ricco sia totalmente ripiegato su se stesso, senza minimamente tenere conto né degli altri, bisognosi o meno che siano, né tantomeno di Dio.
“Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti” (v. 19). E’ interessante notare che il ricco non ha altro partner che la propria “anima”, cioè se stesso, a conferma del narcisismo radicale che lo caratterizza: “i miei raccolti”; “i miei magazzini”; “i miei beni”; “anima mia”!
Tutto sembra andare per il meglio, quando accade l’inaspettato: “Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (v. 20). Ma in cosa consiste la stoltezza del ricco? Il termine “stolto” in greco significa: senza cervello, imprudente, non avveduto, poco furbo. Ciò che per il mondo è furbizia, per il Vangelo è misera stupidità: la vera follia sta nel dimenticare l’etica, dimenticare il timore di Dio e ignorare la miseria degli altri. La domanda finale, “quello che hai preparato di chi sarà?” (v. 20), esprime perciò tutta l’amarezza e l’ironia che scaturiscono dalla prospettiva di Dio, il Signore della vita e della morte.
Occorre fare attenzione a non fraintendere il ruolo di Dio all’interno della parabola. Dio non gode certo della rovina dell’uomo, è un Dio buono che vuole la felicità degli uomini, ma che esige al tempo stesso dagli uomini che ciascuno, soprattutto chi è più fortunato, abbia cura del prossimo, in particolare chi soffre e vive il dramma della povertà. La colpa del ricco consiste proprio in questo: nell’aver dimenticato, pensando esclusivamente a se stesso, non solo il timore (amore) di Dio, ma anche l’amore del prossimo. L’esito della vicenda è perciò catastrofico e drammatico.
Catastrofico, perché da un momento all’altro la situazione verrà completamente ribaltata, e drammatico, poiché dal giudizio di Dio emergerà una verità tremenda: il ricco, inizialmente così sicuro di sé, ha completamente sbagliato il “luogo” dove accumulare le proprie ricchezze, dimenticando che il vero investimento che rimane per l’eternità risiede nell’amore verso Dio e verso i fratelli.
“Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (v. 21). La massima finale rende universale il messaggio della parabola. Ma che cosa significa concretamente “arricchire presso Dio?” Significa anzitutto vivere una vita buona, sobria, all’insegna della condivisione con chi è nel bisogno, nella consapevolezza che un giorno ciascuno dovrà rendere conto a Dio anzitutto dell’atteggiamento assunto nei confronti dei fratelli incontrati lungo il cammino; quel “presso Dio” (verso Dio) indica anzitutto una direzione che deve orientare l’esistenza terrena secondo quella logica che Gesù ha insegnato nel Vangelo.
Il Signore ci invita a una saggezza evangelica: usare quello che abbiamo per aiutare coloro che sono nella miseria e così arricchire davanti a Dio, perché quello è l’unico tesoro che non viene meno e non è soggetto a tempeste finanziarie; non asservire la nostra esistenza a tutto ciò che è effimero, correndo il pericolo serio di perdere ciò che è eterno; non lasciarci abbagliare da ciò che non ci può ottenere la felicità.
Bibliografia consultata: Gennari, 2019; Laurita, 2019.