Religione, “Lo Spirito vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”

di Il capocordata

“Se uni mi ama…io e il Padre mio verremo a lui” (v. 23)

Gesù è in procinto di partire e, accomiatandosi, assicura ai discepoli una presenza costante accanto a loro, il dono del Paraclito, cioè dello Spirito della verità. Nel brano (Gv. 14, 23-29) propostoci dalla  liturgia in questa sesta domenica di Pasqua, Gesù dichiara che la precondizione per accogliere il dono di questa presenza è l’amore per lui nell’osservanza della sua parola. Chi ama il Figlio e la sua parola è amato dal Padre: entrambi verranno a lui e prenderanno dimora presso di lui. Il Figlio e il Padre vengono insieme, perché i due sono “una cosa sola”.

Per l’evangelista Giovanni c’è dunque un andare del discepolo verso il Padre, passando per mezzo di Cristo che prepara una dimora per il credente nella casa del Padre; ma c’è anche un venire del Padre e del Figlio per trovare dimora presso il credente. In questa “reciproca immanenza” è superata ogni distanza tra l’uomo e Dio. Se, per un verso, il credente è abilitato a dimorare presso il Padre, entrando in quello spazio di unità che è la relazione tra il Padre e il Figlio, per l’altro, è lui stesso il luogo in cui Dio prende dimora.

“Prenderemo dimora presso di lui” (v. 23)

La “dimora” di Dio è il tempio di Gerusalemme. Nel vangelo, Gesù è il nuovo tempio che la tradizione biblica identifica come la dimora definitiva del popolo di Dio che sarà edificata dal Messia negli ultimi tempi. E’ Gesù stesso che lo afferma, dopo aver scacciato i mercanti del tempio, parlando del suo corpo. In forza della relazione di amore che intercorre tra il Figlio e il credente, anche quest’ultimo può diventare uno spazio accogliente in cui Dio prende dimora. Gesù, tuttavia, mette in guardia i suoi discepoli dal rischio di compromettere questa comunione: se uno rifiuta la parola dell’Inviato rifiuta anche il Padre, perché la parola dell’Inviato è la parola del Padre. Non si può amare la sorgente e rifiutare ciò che ne scaturisce: solo chi ama il Figlio e la sua parola può essere amato dal Padre e diventare dimora sua e del Figlio suo.

“Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome” (v. 26)

Per poter ascoltare e comprendere la parola di Gesù, occorre la mediazione dello Spirito Santo, il Paraclito inviato dal Padre. Esso consente al credente di ricordare le parole del Figlio per poterle ascoltare. Gesù lascia capire ai suoi che non rimarrà a lungo con loro, ma il Paraclito, che sarà chiamato dal Padre a dimorare presso i credenti, vi resterà per sempre. Lo Spirito Santo “sostituisce” Gesù, anzitutto ricordando ciò che lui ha detto, poiché, grazie al Paraclito, le sue parole diverranno chiare per i discepoli. Lo Spirito Santo è “mandato” dal Padre esattamente come il Figlio e, come il Figlio riporta le parole udite dal Padre, così il Paraclito non dice parole proprie, ma quelle di Gesù. per questo tra Gesù e lo Spirito santo c’è la medesima sinergia che sussiste tra il Padre e il Figlio.

“Vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (v. 26)

Il Paraclito insegna, cioè fa ricordare le parole del Figlio: l’insegnamento dello Spirito consiste nel ravvivare il ricordo delle parole di Gesù. Per il discepolo, “ricordare nello Spirito” non è solo richiamare un fatto del passato, ma coglierne il significato e percepirlo come presente. Le parole del Figlio, pronunciate in un tempo passato, non sono più raggiungibili, di per sé; lo sono tuttavia per chi entra, per mezzo del Paraclito, nell’eterna memoria di Dio, dove il passato non è perduto e dove si diventa contemporanei a ogni tempo.

Il Paraclito è in grado di riportare alla memoria le cose che rimangono, in primis le parole del Figlio, perché hanno attraversato la Pasqua e sono risorte, entrando con lui nell’eternità del Padre. Prima che inizi la sua passione, Gesù anticipa ai discepoli che lo Spirito Santo consentirà loro di cogliere il senso delle sue parole alla luce della Pasqua, parole che saranno eternamente presenti perché materialmente conservate attraverso la mediazione del Vangelo e custodite in Dio nel loro significato più autentico.

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (v. 27)

Oltre al Paraclito, Gesù promette ai discepoli il dono della pace. Il suo non è un semplice augurio, ma un lascito d’inestimabile valore, poiché la pace di cui parla non è l’assenza di conflitti o la tranquillità interiore, ma il dono della pace messianica, cioè la riconciliazione del popolo con Dio. L’evangelista Giovanni descrive l’esperienza pasquale come un venire di Gesù in mezzo ai suoi, portando la pace, suscitando in loro una gioia divina. La consapevolezza di quanto grande è la meta (la comunione con Dio) può bastare a suscitare nel cuore la gioia dei discepoli di ogni tempo.

Non c’è posto, dunque, per il turbamento e il timore, anche di fronte a situazioni inedite e complesse. La pace, che sgorga in definitiva dalla fiducia nel Risorto, produce la gioia, una gioia che, paradossalmente, si vive anche in tempi di persecuzione e di prova. Non è la pace del mondo, fondata sull’esibizione della forza o su un abile compromesso, è la pace che si costruisce attraverso il sacrificio, il dono di sé, si difende con uno spirito di servizio, si rende solida con la fiducia e l’amore.

Bibliografia consultata: Rossi, 2019; Laurita, 2019.

Lascia un commento