L’espulsione dei mercanti dal tempio (Gv. 2, 13-25) è uno dei pochi episodi della vita di Gesù che l’evangelista Giovanni condivide con i sinottici (Matteo, Marco e Luca). Possiamo, dunque, pensare che fosse considerato un evento importante dalla comunità delle origini. Contrariamente ai sinottici, Giovanni pone il testo all’inizio del suo vangelo, nella parte conosciuta come il libro dei “segni” (miracoli). Più precisamente l’episodio segue il segno di Cana e l’inizio della formazione di una comunità in cammino con Gesù: “Egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (v. 11).
Contrasto di Gesù con i venditori e i cambiavalute nel tempio (vv. 13-16)
Il racconto inizia dando un contesto spazio-temporale: l’avvicinarsi della pasqua e la decisione di Gesù di compiere il pellegrinaggio alla città santa. Da notare che il termine “pasqua dei giudei” viene utilizzato fino al momento che precede l’ultima cena, dove si parla soltanto della “pasqua”, forse perché dalla pasqua dei giudei si passa alla pasqua di Gesù. Il racconto è molto vivace: ha un ritmo incalzante, dato dalla sequenza dei verbi: salire, trovare, scacciare fuori, versare, rovesciare. Ma che cosa scatena l’azione di Gesù? Venditori di animali e cambiavalute non erano personaggi illegali, ma offrivano un servizio indispensabile al culto. I cambiavalute, infatti, evitavano che monete con l’effigie dell’imperatore romano entrassero nel tempio e i mercanti garantivano la presenza di animali puri, senza difetto, adatti al sacrificio. Dov’è dunque il problema?
Il gesto violento di Gesù può essere compreso come un’azione simbolica, simile a quelle compiute dai profeti antichi. I due profeti, Malachia e Zaccaria, avevano presentato un rapporto tra l’inizio dell’era in cui sarebbe venuto il messia e la purificazione del tempio e del suo culto. Quindi, la cacciata dal tempio dei venditori di animali ha una duplice funzione: Gesù è in continuità con i profeti antichi e che Lui è il Messia.
Innanzitutto, come gli antichi profeti, Gesù denuncia la profanazione del tempio scaturita da un agire ingiusto:non osservate i miei comandamenti, seguite altri dèi bruciando incenso a Baal, e contemporaneamente venite e vi presentate davanti a me in questo tempio e dite:”siamo salvi”; e poi continuate a compiere questi abomini. Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome? (cfr. Ger. 7, 9-11). Il tempio non è un luogo magico e non costituisce un amuleto: il Dio-con noi non è manipolabile e non può essere posseduto neppure dal popolo dell’alleanza.
Secondariamente, col suo gesto Gesù annuncia l’avvento dei tempi messianici. Come predetto dai profeti antichi, il tempio non sarà soltanto purificato, ma sostituito. Il monte Sion diverrà casa di preghiera per tutti i popoli e il luogo della presenza di Dio nel mondo non sarà più un edificio costruito da mani d’uomo, ma una persona: il Figlio crocifisso.
Come ogni azione simbolica, al gesto seguono parole interpretative: “Non fate della casa del Padre mio un mercato!” (v. 16). Il cambiamento del termine da “tempio” a “casa” guida il lettore a comprendere che per Gesù e la sua comunità il tempio non è una costruzione dove il popolo si raduna per onorare Dio, ma è lo spazio in mezzo agli uomini dove Dio vive, lo spazio in cui la comunità ritrova la propria identità stringendosi attorno a lui. E’ lo zelo per la casa del Signore (cfr. Salmo 68, 10) la motivazione dell’agire di Gesù: lo zelo, l’amore geloso, la passione per il luogo dove Dio dimora. Lo zelo “mi divorerà” (v. 17): il tempo verbale al futuro fa capire che in realtà non si parla più dell’episodio del tempio, ma della passione e morte di Gesù. La proclamazione della sua relazione unica con Dio Padre sarà una delle ragioni della condanna a morte di Gesù.
Se questo basta per i discepoli, non è però sufficiente per i Giudei: chiedono un segno. “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (v. 18). L’evangelista Giovanni gioca ancora una volta sull’ambiguità: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (v. 19). I Giudei interpretano le parole di Gesù alla lettera, pensando ai quarantasei anni che ci son voluti per costruirlo. Ma il lettore comprende che c’è qualcosa di più. “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (v. 21): rispondendo alla richiesta dei Giudei, Gesù dona il segno più grande, la sua morte e risurrezione.
Il ruolo dei discepoli è di testimoniare non solo ciò che hanno vissuto con Gesù, ma la nuova comprensione del mistero di Gesù scaturita dalla sua morte e risurrezione grazie al dono dello Spirito Santo: “credettero alla Scrittura e alla Parola detta da Gesù” (v. 22). Durante la sequela storica di Gesù i discepoli non sono capaci di cogliere il suo mistero. I segni, iniziati a Cana, hanno generato un seme di fede non ancora matura. Soltanto l’ora della morte e risurrezione di Gesù produrrà la fede autentica nella comunità dei discepoli, quella fede che apre alla comprensione del mistero e genera il coraggio della testimonianza fino al martirio.
Per questo l’evangelista Giovanni termina presentando i criteri della fede matura: credere nelle Scritture e nella parola di Gesù. La Scrittura guiderà il discepoli di ogni tempo a comprendere il mistero della morte e risurrezione di Gesù, mentre la Parola gli permette di vedere nel Risorto il luogo definitivo della presenza di Dio. Parola di Gesù e Scrittura diventano dunque strumenti determinanti per accogliere e comprendere il mistero della persona di Gesù, l’inviato del Padre.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018.
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