Religione, “Ora Dio non è dei morti, ma dei viventi”
di Il capocordata
Tutti e tre gli evangelisti ci raccontano questo episodio (Lc. 20, 27-38) della ridicola domanda dei sadducei a Gesù sulla condizione dei risuscitati e lo collocano nel medesimo contesto. La vita terrena di Gesù ha ormai raggiunto il suo termine: il nostro brano si inserisce nella serie di controversie che sorgono in questo ultimo periodo di tempo tra Gesù e i suoi avversari.
“Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei” (v. 27). All’inizio della nostra èra, i giudei istruiti nella fede si dividevano in tre grandi sette. I più noti erano i farisei, verso i quali il Signore non risparmiava i rimproveri più duri sulla loro ipocrisia; e poi, gli Esseni, “i monaci” di Qumran, sulla riva del Mar Morto, che nella preghiera e nella meditazione preparavano la venuta del Regno di Dio. Infine, i sadducei, di origine aristocratica, che componevano la classe dei gran sacerdoti. Contrariamente ai farisei, essi sono lassisti in dottrina, e rigoristi (per gli altri) in morale. Conservatori e integristi, non ammettono che la fede, per rimanere fedele a se stessa, debba progredire e arricchirsi di nuove conquiste. Essi sono poco ricordati nel Vangelo, tuttavia si oppongono a Gesù per timore che la sua predicazione possa essere causa di conflitto con i Romani, che essi rispettavano, dal momento che li lasciavano al potere, come “sommi sacerdoti”. Infatti, con il suo intervento presso Pilato, il gran sacerdote Caifa otterrà che Gesù venga giustiziato.
“…i quali negano che vi sia la risurrezione, e presero a interrogarlo” (v. 28). L’interrogazione dei sadducei è abile. Sanno che Gesù condivide la fede dei farisei nella risurrezione. Sottoponendogli il quesito (vv. 28-32), vogliono costringerlo a sconfessare questa credenza oppure cercano di ridicolizzarla mettendo in risalto le aberrazioni a cui conduce. Partono dalla legge del “levirato”, ben conosciuta dal popolo, benché non venga più osservata. Secondo tale usanza, il cognato (levir, in latino) deve sposare la cognata quando il marito di lei muore senza averle dato figli maschi, al fine di suscitare una posterità al fratello defunto. L’usanza sottolinea il desiderio ardente, scolpito nel cuore dell’uomo, di sopravvivere nei propri figli, quando ancora non c’era la credenza nella risurrezione.
Partendo da questa legge, i sadducei costruiscono un “caso” ipotetico!? Essi spingono alle estreme conseguenze un errore in cui talvolta cadiamo anche noi, quando immaginiamo “le modalità” della vita dopo la morte in modo analogo a quelle che viviamo attualmente e pensiamo che la vita eterna sia la semplice continuazione dell’esistenza presente. La risposta di Gesù ci fa anzitutto prendere coscienza di questo errore, prima di provarci che la fede nella risurrezione non è assolutamente un accessorio facoltativo ma il cuore della nostra fede in Dio. Gesù non si lascia imprigionare nella prospettiva grottesca dei suoi avversari. Egli li obbliga a toccar con mano che errano completamente immaginando la vita dopo la morte sul modello della vita attuale.
“I figli di questo mondo prendono moglie e marito, ma quelli… giudicati degni dell’altro mondo, non prenderanno né moglie né marito…” (vv. 34-36). Per descrivere la vita futura, i sadducei hanno scelto un punto preciso: il matrimonio. Ma la vita eterna non è modellata sulla vita presente, non ci sarà più bisogno di generare perché non dominerà più la morte; è totalmente trasfigurata, è una vita in Dio, nella lode, come quella degli angeli. Non vivremo soltanto alla presenza di Dio nel servizio della lode, uguali agli angeli, ma saremo introdotti nella sua intimità come figli, o meglio, come suo Figlio. Saremo figli di Dio, figli della risurrezione: essa è realmente il momento del passaggio alla vita di Dio.
Siamo ben lontani dalla ridicola domanda dei sadducei: essi volevano trascinare Gesù sul terreno della casuistica, mentre egli ci immerge nel cuore della fede. Cero, rimane l’oscurità riguardo al “come” della vita dei risorti. Ma questo genere di speculazione non ci deve interessare. L’essenziale è altrove: non solo si tratta di una vita nuova, inimmaginabile, vissuta nella lode alla presenza di Dio (uguali agli angeli), ma è la vita dei figli di Dio. Per essere ritenuti degni, bisogna accettare di passare, con Cristo, attraverso la morte, per giungere, in lui, nella vita di risuscitati.
Gesù avrebbe potuto arrestarsi qui: egli ha fatto vedere ai sadducei che erano in errore sul “come” della vita futura. Ora, però, vuole dimostrare loro, partendo dalla Scrittura, che hanno torto di ricusare di credere nella risurrezione. “…il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non è il Dio dei morti, ma dei vivi: perché tutti vivono per lui” (vv. 37-38). Il Dio vivo non può cessare di dar la vita, quindi Abramo e i patriarchi continuano a goderne. E non loro soltanto, ma anche “quelli che ne saranno giudicati degni”. E, negare la risurrezione dei morti, significa negare Dio stesso. La fede nella risurrezione dei morti non è un articolo di fede più o meno facoltativo: è la fede in Dio stesso. Noi crediamo nella risurrezione perché siamo certi di essere amati dal Dio vivo, e perché , poveramente, lo amiamo. La fede nella risurrezione non è un “oppio (droga) rassicurante, ma la certezza e il riconoscimento di esserci incontrati col Dio vivo nel Figlio suo Risorto, primogenito dei morti.
Bibliografia consultata: Charpentier, 1971; Fausti, 2011.