Il vangelo di questa seconda domenica di Quaresima (Mc. 9, 2-10) ci conduce su un alto monte, quello della Trasfigurazione, dove il Padre offre all’umanità il suo figlio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (v. 7). Siamo all’inizio della seconda parte del vangelo di Marco, nella sezione in cui Gesù per tre volte annuncia la sua morte mentre cammina lungo “la via” che lo condurrà al calvario. “L’alto monte” (v. 2) è contemplato dai sinottici (Matteo, Marco e Luca) come un primo passo verso un altro monte, il Calvario.
Tuttavia, la Trasfigurazione non è legata solamente alla passione e alla morte di Gesù, ma diviene un annuncio anticipato della risurrezione. E’ un annuncio da conservare nel cuore fino a quando l’identità di Gesù verrà completamente svelata sulla croce: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti” (v. 9). E’ un annuncio incomprensibile, misterioso, come sottolinea l’evangelista Marco: “Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti” (v. 10).
“Sei giorni dopo” : l’indicazione temporale si riferisce all’episodio di Cesarea di Filippo, dove Pietro confessa la sua fede in Gesù come il “Cristo”, e poi si sente rimproverare da Gesù stesso dopo che Egli ha rivelato che il Figlio dell’uomo dovrà patire molto, essere rifiutato dagli Anziani, dai Sommi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso, ma che dovrà risorgere dopo tre giorni.
“Prese con sé” (v. 2). L’espressione non indica una semplice richiesta di vicinanza fisica, ma esprime una volontà di dono e di condivisione, il desiderio di partecipare ai tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, qualcosa della propria identità divina. Saranno gli stessi discepoli che, invitati a essere presenti con lui nell’ora angosciosa della sua lotta con il male nel Getsemani, si addormentano. Sono: Pietro, colui che dopo essersi dichiarato invulnerabile di fronte a ogni tipo di pericolo, rinnega Gesù, spaventato dal rischio di poter condividere la sua stessa sorte; Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, i quali poco tempo dopo aver sentito Gesù parlare della sua passione, gli si avvicinano chiedendo di poter partecipare alla sua gloria, una gloria che ancora concepiscono in termini di potere, di prestigio, di superiorità rispetto agli altri. Sono dunque uomini piccoli e fragili, dei peccatori proprio come noi.
Tuttavia, Pietro, Giacomo e Giovanni, non sono unicamente simbolo di incomprensione e fallimento. Pietro non è solo il prescelto che rinnega il Maestro per salvare la propria vita, ma anche colui che, tra le lacrime, confessa la sua colpa e riprende la sequela. Giacomo e Giovanni non sono solo i figli del tuono, intransigenti; essi possiedono anche un vero fuoco interiore: il fuoco della disponibilità a morire per Gesù, che porterà Giacomo, primo fra tutti gli apostoli, a subire il martirio (Atti, 12, 2) o quello dell’amore ardente e totale di Giovanni.
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, ben consapevole delle fragilità e delle debolezze che li abitano, sicuro anche che l’esperienza di luce a cui parteciperanno non trasformerà immediatamente il loro cuore. Posando lo sguardo su di loro, tuttavia, egli già vede in essi la roccia su cui stabilirà la sua Chiesa, il discepolo dell’amore, il testimone fedele, pronto a versare il suo sangue.
La trasfigurazione avviene “su un monte alto, in un luogo appartato” (v. 2). La montagna nella cultura biblica rappresenta un luogo teologico: il luogo sacro in cui Dio abita e da cui si rivela. E’ perciò il luogo della rivelazione, luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo. “Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime” (v. 3). La veste bianchissima indica la piena partecipazione di Gesù al mondo di Dio, la sua intimità con il Padre, la verità di un Amore che non può essere più contenuto. “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù” (v. 4). Mosè ed Elia sono simbolo del cammino di Dio con il popolo testimoniato nella Legge (Mosè) e attualizzato nella Profezia (Elia). Il dialogo che Dio ha cominciato nei tempi antichi con Mosè, che i profeti hanno continuato e riacceso nei momenti di stanchezza del popolo, diviene ora permanente nel Figlio.
L’intervento di Pietro, (“Maestro, è bello per noi restare qui” v. 5), scaturisce dalla paura (v. 6) e manifesta ancora una volta il “pensare secondo gli uomini” che Gesù gli ha rimproverato. Costruendo le capanne (“Facciamo tre capanne” v. 5), Pietro vuole fermare la storia, vuole interrompere il cammino che porta inevitabilmente a Gerusalemme; non comprende che la trasfigurazione non è il punto di arrivo, ma un punto di passaggio per poter ritornare alla storia con una prospettiva nuova.
Alla paura dei discepoli risponde la voce del Padre: “Questi è il Figlio mio, l’Amato: ascoltatelo!” (v. 7). E’ dunque un invito a riprendere il cammino con Gesù anche quando la luce della trasfigurazione sarà spenta e le tenebre avvolgeranno il Calvario. E’ un invito a lasciare che Gesù, la sua morte e risurrezione, diventino il centro dell’affettività e dell’esperienza del discepolo. Il Figlio non è un mistero da conservare, ma una persona da seguire: “E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro” (v. 8). I tre si ritrovano soli con Gesù. Tutto termina in silenzio, creando uno spazio aperto per i discepoli di ogni generazione, spazio dove rinnovare la nostra decisione a seguire Gesù sulla via della croce.
Bibliografia consultata: Gatti, 2018.
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