Il vangelo di Luca (12, 13-21) è particolarmente attento al problema della gestione dei beni materiali: Gesù non disprezza la ricchezza, ma mette in guardia i suoi discepoli e le folle di fronte al pericolo di un attaccamento morboso ai tesori terreni. La povertà è anche il presupposto per la sequela: solo chi rinuncia ai suoi averi, può essere discepolo del Signore, che non ha dove posare il capo.
L’autorevolezza di Gesù spinge un uomo a chiedere il suo intervento nella vertenza che lo vede contrapposto a suo fratello per motivi di eredità (v. 13). Gesù prende le distanze da chi vuole coinvolgerlo come giudice o mediatore. Il suo compito non è dirimere questioni di carattere familiare in merito all’eredità; anzi l’occasione è propizia per rivolgere a tutti i presenti l’esortazione a tenersi lontani da ogni forma di “cupidigia”, termine con il quale si indica la volontà di accaparrare per sé più di quanto si abbia o sia lecito possedere.
Il racconto della parabola del ricco insensato (vv. 16ss.) ha lo scopo di comprovare la precedente dichiarazione. Il protagonista è un anonimo proprietario fondiario, la cui campagna gli ha assicurato ingenti profitti; la sua preoccupazione è ora legata alla gestione delle risorse accumulate, perché non sa dove raccogliere i suoi frutti. I suoi granai non sono più capaci di contenere il grano e i beni raccolti; occorrerà demolirli ed edificarne altri più grandi.
A suo modo di vedere l’abbondanza di cui ora dispone gli dà diritto di riposarsi, a mangiare, a bere e a rallegrarsi. Il protagonista della parabola è centrato esclusivamente su sé stesso: il ricco proprietario terriero ragiona nel suo interesse e l’affermazione “in se stesso” (v. 17) conferma la sua autoreferenzialità.
Il soliloquio è interrotto dalla voce di Dio che accusa il ricco di essere insensato (v. 20): l’aggettivo indica che si tratta di un individuo privo di intelletto e incapace di discernere. Accecato dai beni accumulati, il ricco ha escluso chiunque dal suo orizzonte esistenziale, e ha maturato la convinzione che la sua vita potesse dipendere esclusivamente dall’ingente patrimonio a sua disposizione.
Quando tutto è stato predisposto dal ricco per una esistenza agiata e longeva, è Dio che richiede la sua vita; è a lui che appartiene, e per questa ragione può richiederla in qualsiasi momento. La parabola termina con un interrogativo, destinato a restare insoluto: “Ciò che hai preparato, di chi sarà?” (v. 20).
Gesù si riaggancia alla domanda finale per trarre un insegnamento di carattere sapienziale destinato al suo uditorio. I verbi “accumulare” e “arricchirsi” esprimono, rispettivamente, l’idea di ammassare beni con lo scopo di assicurarsi una vita felice. Non è deprecata la ricchezza in sé, ma è biasimato l’atteggiamento di chi vive in maniera autocentrata (egoistica) e gestisce i beni a sua disposizione egoisticamente e fa esclusivo assegnamento su se stesso e sulle risorse che è stato capace di mettere da parte.
La formula “non si arricchisce presso Dio” (v. 21) esprime il senso della relazione con Dio: il ricco ha escluso Dio dalla sua esistenza, e ha ingenuamente ritenuto che la sua vita potesse dipendere esclusivamente dai beni a sua disposizione. E’ nella relazione con il Signore che l’uomo ha la possibilità di uscire da se stesso, perché riconosce che tutto ciò che possiede gli è stato donato dall’alto perché possa condividerlo con il prossimo, soprattutto con i poveri, gli affamati e gli assetati. In tal senso, la ricchezza, se compresa come dono in vista della condivisione, diventa uno strumento prezioso di giustizia sociale e di benessere che giova a tutti, senza escludere nessuno.
Sempre, noi siamo alla ricerca della felicità, quello stato che ci consente di sentirci realizzati, pienamente sviluppati nella nostra umanità. Le difficoltà e le differenze nascono immediatamente quando si tratta di definire in che cosa consiste, quali beni implica la felicità.
Oggi ci sono dei beni che sembrano connotare la felicità: la sicurezza, la stabilità economica, la tutela dei diritti personali e così via. In modo particolare, la felicità consiste nel possesso di beni materiali, di consumo e di fruizione. La parola di Dio invita a dissipare le nebbie delle illusioni dei beni terreni e ci consegna uno sguardo e una saggezza altre, diverse, sulla realtà.
La Parola ci invita al discernimento, a ritrovare una densità nel presente che dia spessore alla nostra storia: la felicità è assumere il proprio tempo e la propria vita, le proprie azioni e la propria responsabilità. Felicità è vivere la relazione con Dio, lasciarsi provocare dalla sua presenza per rileggere sé stessi e la propria esistenza in una prospettiva e in una dignità gratuita e impensabile.
O Signore, tu ci metti in guardia da ogni cupidigia che si impossessa di noi, delle nostre energie, del nostro tempo e ci rende incapaci di cogliere il valore effettivo di ogni cosa. Catturati da quello che luccica, dal successo, dal potere, dal sapere, perdiamo di vista l’obiettivo, l’approdo che dà senso alla nostra esistenza.
Tu ci ricordi che corriamo il rischio di sciupare la nostra vita solo perché ci siamo illusi sul valore di tante realtà, che invece vengono meno e non ci possono assicurare una vita riuscita, quella che resiste anche quando veniamo abbandonati alla nostra fragilità, anche quando i nostri supposti tesori si sono rivelati di vile metallo.
Il Capocordata.
Bibliografia consultata: Landi, 2022; Orizio, 2022; Laurita, 2022.
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