Il brano evangelico (Gv. 13, 31-35) inizia evocando il dramma del tradimento di Giuda, preannunciato da Gesù nel corso della cena e confermato dalla sua uscita dal cenacolo: ciò segna il distacco definitivo del discepolo dal gruppo dei dodici. Grazie a questa uscita si apre, tuttavia, un’ora nuova nella vicenda del Figlio, tant’è che Gesù esclama: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato” (v. 31). Nel vangelo di Giovanni la vita pubblica di Gesù si snoda sul motivo emblematico dell’”ora”: sin dal primo segno, a Cana, egli rende noto alla madre e al lettore che sta per giungere un tempo in cui si realizzerà il compimento ultimativo della sua missione.
Nessuno, prima di allora, può mettergli le mani addosso, finché egli non abbia deciso di consegnarsi liberamente alla morte. Quell’ora coincide con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, più volte preannunciato da Gesù. L’ora della sua glorificazione sta giungendo in forma definitiva attraverso la sua morte. L’ora della morte è l’ora della sua glorificazione: innalzato sul patibolo della croce, egli sale al Padre, per dare compimento alla sua missione. Morte, gloria e innalzamento del Figlio dell’uomo, sulla croce e alla destra del Padre, paradossalmente coincidono.
Per la tradizione biblica la “gloria” di Dio è il suo irrompere nella storia, facendosi percettibile e al tempo stesso celandosi nei segni della sua presenza: il fumo sul monte Sinai, la nube dell’esodo, la tenda del convegno, la presenza di Dio nel tempio di Gerusalemme. La gloria di Dio è il suo peso, la “pressione” che egli esercita sulla storia, un peso tanto gravoso per il mondo da precludere all’uomo una visione immediata, faccia a faccia. In Gesù, Verbo incarnato, il gravoso peso di Dio si fa tanto “leggero” da essere visibile, senza perdere la sua trascendenza.
Gesù dice che Dio è stato glorificato in lui. Nella Pasqua del Figlio è dunque Dio, il Padre, colui che è stato glorificato e l’artefice della gloria del Figlio. La gloria che il Padre attribuisce al Figlio è il riconoscimento della sua identità, cioè il “peso” del Verbo che manifesta l’essenza di Dio. Il Padre dunque ha già glorificato il Figlio nei suoi segni e continua a glorificarlo al compiersi dell’ora: in tal modo egli stesso riceve gloria dal Figlio in un rapporto di reciproca glorificazione.
“E’ stato glorificato” e “lo glorificherà subito” (v. 32). Gesù parla della glorificazione sia al passato sia al futuro. Quando è stato glorificato? Con la drammatica scelta di Giuda di tradirlo. Non è lui che glorifica il Figlio; tuttavia, è attraverso la sua libera scelta che il Padre può glorificarlo attraverso l’evento della sua morte.
A questo punto il passato diventa futuro prossimo: “e lo glorificherà subito” (v. 32), con la morte di Gesù imminente il Padre darà corso alla sua glorificazione. Sia parlando al passato, riferendosi alla scelta di Giuda, sia parlando al futuro, alludendo al suo innalzamento sulla croce, Gesù è coerente nel dire che questa glorificazione si dà attraverso la sua morte. Questo brusco passaggio dal passato al futuro è quanto mai significativo. Parlando al passato è come se Gesù, prima di morire, già vedesse la morte dietro di sé.
Questa chiarezza è possibile anche per il credente: in forza del battesimo egli è già al di là della morte nell’eterna presenza della gloria divina, trascinatovi da Gesù glorificato dal Padre. D’altra parte, il credente non è ancora giunto alla pienezza di questa gloria ed è ancora in cammino. La gloria del compimento resta sempre un dato futuro, ma il credente vi partecipa, avendone accesso in Cristo, soprattutto attraverso la liturgia. E’ così che egli può vedere le cose come Gesù, a partire dalla fine, intuendo l’esito della storia per via anticipata, a partire dal Regno ovvero dalla gloria di Dio.
A questo punto Gesù comunica ai discepoli la sua partenza: “Figlioli, ancora per poco sono con voi” (v. 33); di lì a poco sarà fuori della loro portata. In questo contesto Gesù trasmette ai discepoli il comandamento dell’amore: “Che vi amiate gli uni gli altri “come” io ho amato voi” (v. 34). La novità di questo comandamento va intesa non propriamente in senso cronologico, ma qualitativo: è nuovo perché dice la realtà della salvezza escatologica e un nuovo modo di amare, reso possibile dall’amore inedito e inaudito che si è dato nel Figlio.
Il “come” che coniuga l’amore dei discepoli con quello di Gesù non è di “paragone”, ma di “origine”: l’amore del Figlio non è il modello, ma il fondamento dell’amore che i discepoli si possono scambiare; come se Gesù dicesse di amarci con l’amore con cui ci ha amato. Se nel suo amare sino alla fine Gesù fosse solamente esemplare, egli resterebbe un eroico personaggio del passato; se poi il suo amore fosse anzitutto da imitare, risulterebbe a dir poco schiacciante per l’uomo e irrealizzabile nella sua radicalità. Si capisce pertanto che l’amore con cui Gesù ci ha amati può diventare anche il nostro, se lo assumiamo non come esigenza morale, ma dono da accogliere.
Un amore tanto esigente sarebbe presuntuosa follia se il Figlio dalla croce non ci avesse consegnato l’amore del Padre, cioè la forza dello Spirito che ci lava e ci purifica nell’acqua e nel sangue che sgorgano dal suo costato. La perfezione dell’amore non è la statura a cui l’uomo presume di poter giungere da sé, ma il dono di grazia che Dio in Cristo gli trasmette, donandogli la perfezione del suo amore. Questa è la testimonianza più autentica che l’uomo può rendere a Dio, lasciando che il suo amore traspaia nelle sue opere d’amore, al riparo da ogni protagonismo eroico o sforzo narcisistico.
Bibliografia consultata: Rossi, 2019.
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