Il vangelo odierno (Lc. 18, 1-8) costituisce una vera e propria catechesi sulla preghiera. L’evangelista intende esortare i suoi lettori a perseverare nella preghiera durante il tempo dell’attesa del ritorno del Figlio di Dio, attesa di cui nessuno conosce la durata e che potrebbe comportare anche momenti di dura prova. La parabola narrata da Gesù vede confrontarsi tra loro due personaggi agli antipodi: un giudice di ingiustizia e una vedova, la cui situazione evidentemente è precaria.
Nella parabola che Gesù racconta accade pertanto ciò che non dovrebbe accadere: una vedova riceve un maltorto e viene trascurata da chi dovrebbe tutelare i suoi diritti. Trattandosi di una persona povera, l’unica arma che possiede per difendersi dai soprusi è l’insistenza nel rivendicare i propri diritti: “andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario” (v. 3). Si notino i verbi all’imperfetto, che esprimono l’idea di un’azione continuata, a rimarcare l’insistenza tenace della donna, che deve aver spaventato il giudice “importunato” dalla vedova. Così, per liberarsi dalla scocciatura ed evitare una figura tra l’altro imbarazzante, il giudice cede e accondiscende alla richiesta della donna. I motivi certamente non sono tra i più nobili, ma quanto meno consentono alla vedova di veder soddisfatta la sua domanda di giustizia.
A conclusione della parabola Gesù stesso interviene per darne la corretta chiave interpretativa: “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?” (v. 7). Lungi dall’esaltare il comportamento deplorevole del giudice, con un ragionamento “a fortiori” (a maggior ragione) Gesù ribadisce che Dio, giudice giusto, ascolterà il grido di coloro che hanno riposto in lui ogni speranza e soddisferà la loro sete di giustizia. La prospettiva adottata da Gesù è escatologica (al termine della storia): la situazione della vedova simboleggia quella degli “eletti”, cioè dei credenti che, in nome della fede, devono affrontare le tribolazioni che precedono la fine dei tempi. Se da un lato si riflette in tali parole la situazione della Chiesa delle origini, che visse il dramma della persecuzione, dall’altro è innegabile che esse contengano una carica provocatoria valida per i lettori di tutti i tempi, i quali sono invitati a interrogarsi sulla serietà e sulla costanza nella preghiera.
Gesù pone ai credenti di oggi le seguenti domande: Siamo fra quelli che gridano giorno e notte? Oppure ci accontentiamo di una piccola preghiera ogni tanto, il che equivale a non pregare affatto? Siamo di quelli che “procurano fastidio a Dio” con la loro perseveranza, fino a importunarlo? La preghiera che fa “colpo” (il significato letterale del verbo “importunare”) è quella insistente.
Gesù ci tiene a sottolineare che la preghiera sincera e perseverante non rimarrà senza risposta, anche se talvolta si ha l’impressione che Dio “tardi” a esaudirla. Certamente non è facile comprendere il motivo di tale ritardo. Molti studiosi del Vangelo ritengono che esso debba essere interpretato nella prospettiva della pazienza divina nei riguardi degli empi. Ciò che veramente importa, però, è che i credenti perseverino in un atteggiamento di preghiera e di fede, come emerge bene dalla domanda finale di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (v. 8).
Non si tratta di un interrogativo che lascia trasparire una nota di pessimismo. Piuttosto, con tale domanda, Gesù ricorda ai discepoli di ogni tempo che la misura della fede è quella della preghiera. Pregare non significa certo riempirsi la bocca di parole vuote; significa piuttosto vivere umilmente in conformità alla volontà di Dio, camminando nella storia con un cuore puro, semplice e disponibile ad accogliere il regno di Dio. La domanda conclusiva, pertanto, è da intendersi come un’ulteriore, accorata esortazione alla perseveranza, affinché ciascuno sia pronto, vigilante nella preghiera, quando il Figlio dell’uomo verrà alla fine dei tempi, cosicché siamo trovati degni di entrare nel banchetto delle nozze eterne.
Uno scrittore moderno, A. Ploux, immagina, in un suo racconto, un tale che entra in una piccola chiesa e vede Dio inginocchiato a pregare: “O uomo, se ci sei, dammi un segno!”. E quando l’uomo gli tocca le spalle per segnalare la sua presenza, Dio esclama: “Miracolo, un’apparizione umana!”.
Ci lamentiamo molto spesso che Dio sia assente e indifferente alle nostre preghiere, ma se fosse vero il contrario? Se cioè fosse più vero che molto dipende da noi, dalla nostra fatica a stare alla sua presenza e a pregare? E’ necessario pregare sempre, con insistenza, senza scoraggiarsi, come la vedova. E invece, certe volte, la nostra preghiera, forse per pigrizia, perché distratti o per la presunzione di farcela da soli, sembra essere quella di chi non sa cosa domandare ed è come se dicesse: “Caro Dio, ho soltanto due parole da dirti, così mi sbrigherò presto e me ne andrò via subito” (il Santo Curato d’Ars).
Bibliografia consultata: Gennari, 2019; Roselli, 2019.
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