Nella ricerca scientifica, una delle poche certezze è che non ci sono certezze. Qualunque dato, qualunque paradigma può essere infatti messo in discussione da eventuali nuove scoperte. Un concetto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità non deve avere ben chiaro, a giudicare dalla gestione della pandemia da Covid-19. E dalla lezione che ha ricevuto direttamente dallo spazio.
Pochi giorni fa, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters uno studio che annunciava una scoperta eccezionale in campo astronomico. Una scoperta che parla anche italiano, visto che porta la firma del rivelatore Virgo, situato vicino Pisa – oltre che dei suoi omologhi americani LIGO.
Gli avanzatissimi strumenti hanno captato una collisione cosmica in cui un buco nero con una massa 23 volte quella solare ha “inghiottito” un oggetto molto più piccolo. Il segnale, denominato GW190814, è stato rilevato nell’agosto 2019, ma l’evento originario si è verificato 800 milioni di anni fa! Tanto hanno impiegato le onde gravitazionali prodotte nell’impatto a raggiungere la Terra.
La particolarità è che l’oggetto più piccolo aveva una massa pari a 2,6 volte la massa del Sole. «Una massa mai osservata finora» come ha spiegato il portavoce di Virgo, Giovanni Losurdo, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Di norma, infatti, un buco nero si fonde con un altro black hole oppure con una stella di neutroni. Un corpo celeste di dimensioni relativamente piccole e densità altissima, costituito prevalentemente da neutroni tenuti insieme dalla forza di gravità.
Sia un buco nero che una stella di neutroni si formano quando una stella muore in seguito all’esaurimento dell’idrogeno che funge da “carburante”. Se l’astro progenitore ha una massa compresa tra 8 e 30 volte quella solare, esploderà in una supernova e il suo nucleo collasserà in una stella di neutroni. Se la stella madre ha una massa superiore a 30 volte quella del Sole, la potenza della gravità contrarrà lo spaziotempo in un punto infinitesimale. Il risultato sarà un’implosione che darà vita a un black hole, un oggetto con un campo gravitazionale così intenso da intrappolare perfino la luce.
Secondo i calcoli dei fisici nucleari, una stella di neutroni non può avere una massa superiore a 2,2-2,3 volte quella del Sole. Oltre questo limite, la gravità sarebbe troppo forte, e il corpo celeste collasserebbe in un buco nero. D’altra parte, il black hole più piccolo a oggi conosciuto ha circa 5 volte la massa solare.
Per questo motivo, gli scienziati hanno teorizzato un ipotetico “gap di massa”. In base al quale non esisterebbero né stelle di neutroni né buchi neri in un intervallo compreso tra circa 2,5 e 5 masse solari.
Tuttavia, l’oggetto più piccolo tra i due rilevati da Virgo e LIGO aveva una massa che cade proprio all’interno di questo mass gap. Il che significa che potrebbe essere la stella di neutroni più pesante o – più probabilmente – il buco nero più leggero mai individuato.
Si tratta di un dato che non collima con nessuno dei modelli di formazione di questi tipi di corpi celesti – né dei cosiddetti sistemi binari. Oltretutto, finora si credeva che fusioni come quella fin qui descritta riguardassero oggetti di dimensioni più o meno simili. Tuttavia, nel caso in esame il rapporto tra le masse dei due progenitori è di 9 a 1.
La scoperta è una sfida per gli astrofisici, che dovranno necessariamente modificare i propri paradigmi di riferimento. Come si fa quando la ricerca scientifica, che è anticonvenzionale per definizione, produce evidenze contrarie agli orientamenti dominanti. Un concetto che per la World Health Organization (e anche per gli eco-mentitori affermazionisti che adattano i dati all’ideologia) pare stranamente difficile da comprendere.
I social, che giammai perdonano, hanno fulminato la WHO con la consueta ironia: “Il coronavirus ha dichiarato che l’Oms muta molto rapidamente”.
La frecciata fa riferimento alle posizioni ondivaghe sull’epidemia in corso da parte dell’istituto retto dall’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Un ente che «non ha brillato per tempestività ed esattezza», come sottolineato anche dal virologo Andrea Crisanti.
Lo scienziato romano ha salvato il Veneto anche perché ha contravvenuto alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che a febbraio prescriveva di somministrare tamponi solo ai casi sospetti, mentre a Vo’ si è optato per la strategia dei tamponi a tappeto. Strategia che poi, magicamente, è diventata anche l’indicazione dell’Oms – ma solo a metà marzo.
Peraltro, le ultime linee guida della World Health Organization prescrivono che, per considerarsi guariti, siano sufficienti tre giorni senza sintomi. Non sarebbe più necessario, dunque, un doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore – una raccomandazione che ignora totalmente la realtà del contagio da parte degli asintomatici.
Per non parlare delle mascherine, che ad aprile in pochi giorni sono passate dall’essere superflue all’essere indispensabili. Il percorso inverso lo hanno invece fatto i guanti, imprescindibili in periodo di lockdown e poi improvvisamente divenuti addirittura pericolosi.
Forse, però, ancora più significativo è il dietrofront sui farmaci. Come il desametasone, un antinfiammatorio che Ghebreyesus ha definito una «svolta scientifica salvavita» dopo che l’Università di Oxford ha diffuso i risultati preliminari dei trials clinici. Peccato che, a marzo, l’Oms sconsigliasse l’uso dei corticosteroidi (la classe di ormoni cui appartiene il desametasone) per il trattamento della polmonite virale.
Questi continui e destabilizzanti cambi di rotta sarebbero più che giustificati se a motivarli fossero i progressi della ricerca scientifica. Come dimostra la scoperta italo-americana dalle profondità del cosmo, che costituisce un passo avanti verso una migliore comprensione dell’universo. Il problema è che, escluso il caso del desametasone, l’agenzia dell’Onu per la sanità dà l’impressione di procedere come una banderuola mossa dal vento.
Insomma, da un lato ci sono i buchi neri, dall’altro il “buco nero” nel cuore dell’Oms. Se non è razzista scherzarci su.
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