“Andreotti non è stato uno statista, ma un grande professionista della politica.
Aveva grandi qualità, come la prudenza, tipica degli uomini cinici. Il cinismo in politica è una virtù, mentre per altri è un vizio.
Andreotti non aveva il senso dello Stato, perché, in fondo, il suo Stato era la Chiesa, era lo Stato Vaticano e non quello italiano”.
Così Roberto Gervaso, giornalista, scrittore e aforista, durante la trasmissione ‘Un Giorno Speciale’, condotta da Francesco Vergovich sulle onde di RadioRadio, dopo aver appreso in diretta della morte di Giulio Andreotti.
“Ha anche dei grandi meriti – ha continuato – era un uomo di equilibrio, molto prudente, con un gran senso della realtà. Non guardava nessuno negli occhi. Era tante cose insieme: in Andreotti c’era un po’ di Pasquino e del cardinale di Curia, un po’ di Alberto Sordi, era spiritoso, c’era di tutto in lui.
Non l’ho mai visto prendere sotto braccio qualcuno. Credo che l’unica donna che abbia mai baciato sia stata la moglie e solo 4 o 5 volte, tante quanti sono i figli che ha avuto”.
“Andreotti era uno che non affrontava gli ostacoli, li ha sempre aggirati. Nascondeva molto bene i suoi pensieri, ma, alla fine, nell’armadio aveva più doppiopetti che scheletri. Gli hanno attribuito così tanti scheletri che il suo armadio sembrava Redipuglia; ma se li avesse avuti realmente, non avrebbe fatto per dieci anni la spola tra Perugia e Palermo.
Quando lui divenne Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era il 1947. Allora, in America c’era Truman, in Francia c’era De Gaulle, in Cina Mao e in Inghilterra c’era Churchill.
Secondo me hanno solo detto che è morto, ma non è morto. Non credo che uno come Andreotti possa morire perché è troppo furbo per morire.
Certamente non lascia eredi. Ha segnato la storia di Italia, anche lui è uno dei responsabili di questa situazione. Perché a cercare sempre di accontentare tutti, non si fa bene.
Se gli si chiedeva: ‘preferisci essere un sub o rimanere a galla?’, Andreotti rispondeva che lui era un divo a galla. Per lui era meglio tirare a campare che tirare le cuoia. E questo, uno statista, non deve dirlo.
Ma, pro domo sua, ha saputo gestire bene il potere.
Certo, all’Italia ha dato tanto, ma tanto ha anche tolto”.
Riguardo la parabola conclusiva della vita politica di Giulio Andreotti, Gervaso sostiene che “come per Craxi, gli è toccata la giusta fine. Quando ancora era in piedi il Muro di Berlino, mentre Reagan bombardava Tripoli, i due hanno fatto fuggire Abu Abbas. Sigonella è stata la loro pietra tombale.
Chi appartiene a un’alleanza, peraltro sancita a Jalta da Stalin, deve rimanere fedele all’alleanza.
E non c’entra il senso della patria, perché avere il senso della patria significava esporla a dei pericoli. Infatti, qualche settimana dopo, si è verificata la strage di Fiumicino.
Andreotti ha pagato Sigonella come l’ha pagata Craxi. Perché quelle cose non si fanno, a maggior ragione in un’alleanza strategica come era la NATO, e sapendo benissimo quali erano state le scelte di Jalta”.
“Andreotti ha saputo fare bene il suo mestiere – ha concluso Roberto Gervaso – che per lui era un mestiere. Al suo posto uno statista avrebbe compiuto una missione, e lui non l’ha fatto. Ha solo portato avanti un mestiere. Bene, ma nulla di più”.
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