Un borgo di memoria pasoliniana a due passi dal carcere di Rebibbia, ove il poeta friulano aveva abitato e insegnato. Case basse e stradine in cui ci si saluta senza invadenza. Qui da alcuni anni apre i suoi cancelli ogni mattina una Scuola Waldorf, figlia della pedagogia visionaria e reale di Rudolf Steiner, per il quale una condizione di conoscenza dipendeva dallo svilupparsi di un legame tra pensiero, sentimento e volontà, quali elementi fondativi dell’esperienza umana.
L’Arco d’Oro è la scuola che dalla prima elementare alla terza media offre agli alunni e alle loro famiglie questo progetto. Non chiacchiere ma un metodo applicato da maestri che vi credono. Da qui la realizzazione di grandi e piccole imprese, da qui l’integrazione di bambini e ragazzi di ogni cultura e di ogni capacità, sulle basi non già di una generica accoglienza ma di una varietà didattica di grande completezza.
In ciò le arti del movimento e dell’espressione giocano un ruolo di eccellenza, del che mi sono reso conto nell’assistere alle due recenti repliche di Pene d’amor perdute al “Teatro 7 off” di Roma: “Una commedia di cuore e di mente”, definizione che appare sul programma di sala non già a firma di Cordelli o di Quadri ma di Damiano Prata, quattordici anni immersi nel ruolo del Re di Navarra, che ha interpretato con precisa maestria quasi incarnando il vulnus dell’equivoco shakespeariano secondo cui a giuramento impossibile seguirà sempre un irreparabile, e comico, spergiuro.
Nel caso di specie si trattava della solenne promessa, contratta dal monarca assieme ai suoi tre signori di corte e di fede, di non accostarsi a fanciulla alcuna per ben tre anni, da spendere studiando ed elevando lo spirito. Da qui la più antica Commedia di William Shakespeare arriverà ad elevarsi a intreccio perpetuamente contemporaneo. Infatti la resistenza dei quattro casti giurati durerà lo spazio di quel mattino in cui, al prato prospiciente il castello di Navarra, si sarà affacciata la figlia del Re di Francia con la sua corte di Dame, l’una e le altre provocanti e spietate, superbe nei giochi maliziosi, ciascuna abilissima nel tenere in pugno il proprio spasimante.
“Poiché tu bari, non voglio più giocare…” fa dire il Bardo alla Principessa. E ogni vezzo si placa al termine del monologo di Biron, un’infuocata apologia della verità amorosa e dei suoi cedimenti, che tace con queste parole: “Siete stati dei pazzi a ripudiare le Donne! E sareste altrettanto dei pazzi a non ripudiare quei voti, in nome del buon senso che a tutti gli uomini piace invocare. Per amor delle donne che fanno di noi quelli che siamo, perdiamo la faccia vivaddio, ma ritroviamo noi stessi o finiremo per perdere noi stessi per salvare la faccia. Vi dico anche che il nostro spergiuro è un sacro dovere, forse per amor degli altri non ce lo impone il Vangelo, e chi può scindere l’Amore dall’Amore per gli altri?”.
In un crescendo emotivo inarrestabile Biron ha turbato una platea che forse si attendeva una recita, quella che non era mai iniziata. La classe della maestra Claudia Arrigo, coadiuvata da Marzia Di Nicola, si era nei mesi trasformata in una vera compagnia d’attori capaci di viaggiare “attraverso tutti i registri del linguaggio”.
Avevo assistito alla messa in scena di una Commedia insuperata, e quel Biron che si appassionava in nome della verità del suo stesso cuore, aveva davvero sconvolto la platea. Michele Vitolo aveva colto che “senza comprendere un testo, la sua memoria rimane vana, e senza sentire le medesime emozioni del personaggio, l’interprete svanisce.” Parole sue.
In fondo la sensibilità di questo ragazzo aveva percepito il senso ultimo di un lavoro enorme, vissuto da una quindicina di ragazzi stupendi che avevano pensato, sentito e gioito assieme. Proprio loro, che avevano seguito il sentiero più bello. Se cercate il teatro, troverete la morte, si diceva un tempo. Loro hanno fatto l’opposto: cercando la Vita, hanno trovato il Teatro.
Giuliano Compagno
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