Riguardo al meccanismo dello spopolamento, che abbiamo affrontato in più occasioni, bisogna fare attenzione a un circolo vizioso che si sta instaurando, sempre prodotto dal business facile che attira ogni investitore. Ne parla Paolo Conti sul Corriere della Sera. Un circolo vizioso che “non potrà che produrre effetti devastanti anche per l’economia, arrivando ad un certo punto a cacciare non solo i residenti ma anche i turisti più colti e preparati, coloro che invece sono una risorsa per la città perché portano denaro ma anche cultura e integrazione. Perché devo andare a Roma se nel suo centro storico non trovo più una trattoria tradizionale ma posso comprare solo pizza al taglio? Se nei vicoli, invece degli ebanisti e delle pelletterie, mi imbatto in minimarket uno uguale all’altro?”.
Il problema che pone Conti non è da poco. Con il tempo e con queste trasformazioni i centri storici di tutto il mondo presto si assomiglieranno tutti, venderanno tutti le stesse cose, con gli stessi negozi, gli stessi marchi. Si vedranno più le insegne del resto. Fate caso agli aeroporti e agli hotel della fascia tropicale. Non sono già simili in tutto per l’aspetto commerciale? È l’omologazione. Si comincia con le città e si finisce con le teste.
C’è anche chi la pensa diversamente. Lo scrittore Marco D’Eramo, che ha studiato diverse città mondiali diventate Patrimonio dell’Umanità Unesco, definisce lo spopolamento: “urbanicidio a fin di bene”. Il bollino di patrimonio Unesco “dissangua e imbalsama metropoli millenarie, sottraendo il tempo al naturale divenire. Città gloriose, opulente, frenetiche, che per secoli, e a volte per millenni, erano sopravvissute alle peripezie della storia, a guerre, pestilenze, terremoti. E che ora, una dopo l’altra, avvizziscono, si svuotano, si riducono a fondali teatrali su cui si recita un’esangue pantomima“.
D’Eramo sostiene che per preservare questo patrimonio, lo si surgela, lo si fissa come una fotografia e “lo si sottrae al cambiamento, al divenire. Se nel 450 a. C. avessero paralizzato l’Acropoli di Atene oggi non avremmo i Propilei, né il Partenone, scrive. “Così come a Parigi non avremmo il Beaubourg e via proseguendo.” Una tesi controversa ma che non è scevra di spunti interessanti. Facciamo bene a bloccare i cambiamenti? Preservare queste aree così come sono oggi non significa sottrarle alle dinamiche vitali della storia?
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