Delegando in parte alcune funzioni di ministeri, uffici, palazzi del potere e della politica, ambasciate e consolati, diminuirebbero, d’un colpo solo, tanti problemi di traffico, di immondizia, di penuria delle case, di costi per le famiglie. Diventerebbe la città dell’arte e della cultura dando impulso al turismo, con conseguente crescita dell’occupazione.
Una capitale è il simbolo dell’unità nazionale, il cuore politico e spesso anche economico e culturale di un Paese. Quasi tutte le capitali sono città con alle spalle una storia importante, una popolazione che rappresenta la più alta concentrazione di abitanti del Paese. Trovare tutte queste funzioni in un’unica sede è ovvio che ponga problemi organizzativi, amministrativi, di sicurezza e anche difficoltà nel gestire lo sviluppo ordinato e pianificabile di una città. Sappiamo bene quali sono i mali che affliggono Roma e non starò a ripeterli. La mia è una provocazione, un sogno, un’utopia.
Non so come e se sarà possibile rendere vivibile di nuovo questa città, se non liberandola da qualcuno dei mille lacci e lacciuoli che l’hanno costretta e limitata per decenni. Uno di questi lacci è l’incombenza di essere la Capitale d’Italia.
Rendetevi conto che a Roma ci sono 24 Ministeri, sparsi nell’intera città.
C’è poi il Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo Madama, Montecitorio e i numerosi palazzi dove si trovano gli uffici dei parlamentari e varie istituzioni collegate, enti governativi, sedi militari, ambasciate, consolati, ecc. Un insieme di almeno 50-60.000 persone con relative famiglie, che innalzano sensibilmente il numero dei cittadini residenti. A tutto questo vanno aggiunte le sedi dei giornali, radio, televisioni, agenzie di comunicazione, insomma l’indotto che opera con la diplomazia e la politica. Un mondo di interessi, di professionalità, di vite che si muovono nella città con mezzi propri e pubblici, con auto blu, scorte, addetti, segretari, assistenti, e tutto il mondo dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni sociali ed economiche che ruotano attorno al Governo e al Parlamento.
La provocazione che voglio fare qui è quella di immaginarsi Roma, senza parte di queste incombenze. Spostando alcune delle funzioni dell’amministrazione statale nazionale in una città vicina, che venga finalizzata a questo compito. Liberando Roma e restituendole in parte il ruolo di città d’arte, di città eterna, di capitale della cultura e del mondo antico. Non è una cosa del tutto impossibile, anche se i costi sarebbero notevoli.
Studiando il fenomeno mi sono reso conto che nel mondo sono stati fatti progetti analoghi, con differenti modalità e in diverse epoche, nell’intento di programmare il futuro, pianificando una crescita sostenibile delle varie linee di sviluppo della popolazione.
Spostare il baricentro politico e amministrativo di un paese è un’opera ciclopica, politica ancor prima che logistica e finanziaria. I casi più spettacolari in essere sono quelli di Nusantara in Indonesia e di Sisy City in Egitto. Nuove capitali che nascono per decongestionare le vecchie esplosive Giacarta e Il Cairo.
Un’opera difficile e impegnativa perché complesse e articolate sono le funzioni che si addensano nella capitale, che neanche in un futuro tecnologicamente avanzato si riusciranno a semplificare. Ma il problema non è solo il funzionamento della macchina statale, bensì la liberazione di Roma come luogo di bellezze universali e di godimento culturale.
Un modello di pensiero rinascimentale dovrebbe porla al di sopra di ogni altra esigenza e farne il centro di un motore di sviluppo basato unicamente sui valori dell’arte, della cultura e dello spettacolo.
Potrebbe restare Roma Capitale, come lo è Amsterdam in Olanda ma decongestionarla, delegando molte funzioni amministrative, con conseguente spostamento di ministeri, palazzi, strutture in una delle città laziali contigue. Non vorrei avanzare nomi per non scatenare polemiche inutili. Una città che si possa individuare in un raggio di 100 km dal Campidoglio, possibilmente con ampi spazi a disposizione, buoni collegamenti e disposta ad assumersi questo onere e questo onore.
Chi ha detto che la Capitale debba essere una?
Non è detto che uno Stato debba avere una sola capitale. Il Sud Africa per esempio ne ha tre: Città del Capo, Bloemfontein e Pretoria. I vari poteri dello stato sono stati dislocati nelle varie città con un certo sollievo per gli abitanti di ciascuna di loro.
Amsterdam è la capitale ufficiale olandese ma la sede del Parlamento, del Governo e del Capo dello Stato (il Re) come tutte le ambasciate straniere, risiedono a Den Haag, che noi conosciamo come L’Aja, una città di soli 545.000 abitanti.
La stessa cosa è accaduta in Australia con Canberra, a metà strada tra le due città più importanti Sidney e Melbourne. Ugualmente è accaduto in Canada favorendo Ottawa a metà strada tra l’anglofona Toronto e la francofona Montreal. Stesso principio è stato applicato negli Stati Uniti d’America eleggendo a capitale Washington posta equidistante tra New York, Boston e Philadelphia. Il tentativo tipico anglosassone dell’equidistanza è servito a placare le diatribe tra le città rivali e al tempo stesso liberarle dalle incombenze dell’amministrazione pubblica. Perché diciamolo, vivere nella Capitale è una bella rottura di scatole per chi ci abita. Scegliendo un luogo terzo, dedicato a questa missione, si sono risolti d’un colpo tanti problemi. Proprio quelli che affliggono città come Roma, Parigi, Londra e Madrid.
La scelse nel 1923, come capitale della nuova Repubblica Turca, il Presidente Atatürk, per la sua posizione al centro dell’Anatolia, ma anche per il contrasto con la decadente Costantinopoli, poi nominata Istànbul nel 1930. Fu sede dei Sultani e capitale dell’Impero Ottomano per quasi 400 anni, fino al crollo avvenuto con la Prima Guerra Mondiale. Negli anni successivi alla fine della guerra la capitale fu spostata da Istànbul ad Ankara.
Questo perché Ankara era vista come un luogo più neutrale. Non era associata a nessun particolare gruppo etnico o religioso. Non bisogna dimenticare che Atatürk era un militare che volle laicizzare la Turchia e renderla un paese moderno, non soggetto all’integralismo religioso. Mentre Istànbul aveva una popolazione prevalentemente musulmana e turca, Ankara era una città più diversificata, con un mix di diversi gruppi etnici e religiosi.
In secondo luogo, Ankara era considerata più sicura e strategicamente difendibile. Collocata al centro dell’Anatolia, lontano dalle coste vulnerabili che in passato erano state oggetto di invasioni straniere.
Infine, si voleva prendere le distanze dall’Impero Ottomano e creare una nazione moderna. Niente di meglio di una nuova città come capitale, per simboleggiare questa rottura con il passato. Oggi Ankara conta 5 milioni di abitanti e Istànbul è una delle città più amate dal turismo internazionale.
Una cittadina vicino a Colonia, piccola e sonnacchiosa, famosa solo per aver dato i natali a Beethoven, è stata capitale della Germania Occidentale per 41 anni, fino al 1990. Bonn ha solo 300.000 abitanti e con la riunificazione ha dovuto cedere il ruolo di capitale a Berlino. Alcuni uffici governativi però sono rimasti a Bonn anche dopo il trasloco di parlamento e governo e ci sono tuttora ben 19 organizzazioni delle Nazioni Unite che hanno uffici a Bonn.
Venne scelta come soluzione temporanea, come ripiego in attesa della riunificazione. Sicuramente la città non ha sofferto molto del fatto di non essere più capitale, forse è stato addirittura un bene, perché ha radici che vanno ben oltre la politica. Bonn può offrire molto al turista e proprio a partire dal 1990 la città ha cominciato a curare e valorizzare le sue tradizioni e i suoi monumenti. Con il risultato che oggi il flusso turistico è cresciuto rispetto a prima. Oggi conta 9 milioni di visitatori all’anno.
Le numerose ex-ambasciate sono delle ville stupende, dal punto di vista architettonico e anche il vecchio quartiere del parlamento e del governo è interessante. La città offre spunti culturali e storici di notevole spessore, a partire dal vecchio municipio, lo splendido castello dei principi elettori. Oggi sede della prestigiosa università della città e la casa natale di Ludwig van Beethoven. Ma dopo il 1990 sono stati costruiti anche dei nuovi musei, tra i più visitati di tutta la Germania. Proprio il nuovo ruolo dà a Bonn l’occasione di mettere nella giusta luce le sue qualità e le sue bellezze. Il suo caso fa capire quali enormi vantaggi potrebbe trarre Roma da una simile decisione.
È la capitale del Pakistan dal 1967. Si trova nella parte nord-orientale della nazione. Conta circa un milione di abitanti. Il nome significa città dell’Islam.
Anche se possiede l’arma nucleare il Pakistan è un paese pieno di contraddizioni e per questo un temibile e controverso “alleato” dell’Occidente. In questo contesto, verso la fine degli anni ’50 si avviò uno dei più grandi esperimenti urbanistici del ‘900: l’invenzione di una capitale. L’inizio dei lavori per Islamabad avvenne nel 1961, in un decennio che vide in tutto il mondo stati giovani costruire ex-novo le loro capitali come Canberra o Brasilia.
Il progetto della nuova capitale viene affidato nel 1961 a un architetto e urbanista greco di fama internazionale, Constantinos Doxiadis, noto anche per la sua teorizzazione di una scienza degli insediamenti chiamata Ekistics. La stesura del masterplan si fonda su una separazione del traffico pedonale e automobilistico, una struttura alveolare della città tramite cellule di 2×2 km. La spina dorsale è formata da due strade principali, Islamabad Highway e Murree Highway, orientate in base al paesaggio circostante e agli ostacoli artificiali presenti.
La capitale è suddivisa in otto zone principali: il distretto amministrativo, l’enclave diplomatica, le aree residenziali, le strutture per l’educazione, le aree industriali, le aree commerciali, le aree verdi e rurali e le aree per lo shopping e il verde urbano.
Ogni settore è contrassegnato da una lettera e da un numero, è autosufficiente per quanto riguarda la vita di tutti i giorni e si inserisce in uno schema modulare che viene ripetuto per rendere più semplice l’espansione della città.
Oggi Islamabad, se confrontata con Rawalpindi, sua rumorosa vicina, ha viali dritti ed ombreggiati, che si interrompono improvvisamente, strade silenziose, palazzi residenziali alti più di una decina di piani, edifici governativi disegnati dai migliori architetti del mondo che con le loro linee si inseriscono armoniosamente nel contesto degli spazi verdi creati da aiuole, giardini e parchi.
In molti casi si è deciso non di adattare una città alla bisogna ma di costruire appositamente un nuovo centro che fungesse per questo scopo. È stato così per Brasilia, che ha liberato sia Rio de Janeiro che Sâo Paulo da questa incombenza, permettendo che si sviluppassero nelle direzioni loro più congeniali.
Brasilia, venne costruita in soli 41 mesi, dal 1956 al 1960. Un’utopia architettonica che voleva assurgere a città simbolo. Immaginata a forma di aeroplano dall’urbanista Lucio Costa, affiancato dall’architetto Oscar Niemeyer, secondo le teorie di Le Corbusier.
L’idea era quella di costruire una nuova capitale che diffondesse progressi e benessere economico anche nelle aree interne del Paese. Brasilia doveva essere una città non coloniale, senza architettura classica e barocca ma, soprattutto, senza favelas.
Un organismo con linee pulite e spazi monumentali, costruita per essere attraversata in automobile e non a piedi, assolutamente razionale quanto alla distribuzione delle funzioni, con aree residenziali distinte da quelle governativa e da quelle a vocazione commerciale. Tuttavia non è riuscita a conquistare il cuore dei brasiliani, che la considerano anonima e lontana dall’utopica città a misura d’uomo sognata dai suoi ideatori. Oggi conta 5 milioni di abitanti, ed è una degli ambienti urbani con più disuguaglianze al mondo.
Anche Canberra, Ottawa e Washington vennero progettate con le finalità di avere un centro dedicato alle funzioni di Capitale.
Nella costruzione dell’agglomerato che doveva ospitare le istituzioni australiane, il piano del 1913 si ispirò alla filosofia della “città giardino” e per questo Canberra è una città caratterizzata da ampi spazi di vegetazione spontanea, divisa in due dal lago Burley Griffin, dal nome degli architetti statunitensi che idearono e disegnarono il piano.
Walter e Marion Burley Griffin fecero in modo che il punto di riferimento della città fosse la Parliament House e che fosse sempre visibile da ogni parte. Oggi, se da un lato Canberra è considerata una delle città più vivibili al mondo, grazie al verde, deve a queste aree la segregazione eccessiva dei suoi quartieri e i suoi limiti nello sviluppo. Attualmente Canberra conta circa mezzo milione di abitanti, a fronte dei 4 milioni delle due metropoli australiane vicine.
Quando George Washington volle costruire la capitale politica degli Stati Uniti, il Paese era sviluppato soprattutto sulla costa est e le più grandi città si trovavano sul fronte atlantico.
Il masterplan, dell’architetto di origini francesi Pierre Charles l’Enfant,prevedeva una capitale monumentale con grandi parchi verdi. Per non offuscarne la vista prescriveva che gli edifici fossero regolamentati in altezza. Infatti la legge vieta ancora la costruzione di edifici che superino di oltre sei metri la larghezza della strada su cui poggiano. Washington, al contrario delle grandi metropoli americane, è una città senza grattacieli.
Considerata la più europea tra le città americane, è rimasta una capitale politica, un centro culturale e di ricerca, ma non è mai diventata una capitale economica. I flussi tipici del pendolarismo che si verificano nella altre grandi città americane qui non hanno luogo. Forse proprio questa è una delle sue qualità.
Fuori dal mondo anglosassone non mancano esempi di città nate da zero. In India per esempio New Dehli, capitale dello Stato, venne progettata dal nulla. Furono Sir Edwin Lutyens e Sir Herbert Baker, a creare il piano, a partire dal 1911, per ospitare la sede del governo del Raj britannico, sostituendo la popolosa metropoli di Calcutta. New Dehli venne costruita al limite della vecchia Dehli, con l’obbiettivo di ospitare 70.000 abitanti. Il suo impianto rigorosamente geometrico, fatto di ampi viali e spianate, contrastava sensibilmente con il caotico e intricato tessuto urbano della città vecchia. Oggi New Delhi è stata assorbita in un’area metropolitana che supera i 28 milioni di abitanti, cresciuta in modo più libero e capriccioso rispetto all’impianto originale. La forte spinta demografica ha reso la città non solo capitale politica ma anche protagonista della crescita economica del Paese.
Capitale provvisoria dello Stato d’Israele dal 1948 al 1980, Tel Aviv è stata fondata nel 1909, durante il mandato britannico, da 66 famiglie guidate dal futuro sindaco Meir Dizengoff. L’intenzione era quella di creare una città moderna e spaziosa sulle sponde del Mediterraneo come ampliamento della sovraffollata Giaffa, che la leggenda vuole fondata da uno dei figli di Noé. Fu quindi costruita la Città Bianca, che deve il suo nome agli edifici in stile Bauhaus degli anni ’30. L’area poggia sul piano urbanistico di Sir Patrick Geddes (1925-27), grande teorico che solo a Tel Aviv implementò su larga scala la sua visione ispirata alle “Città giardino”. Geddes ha creato un’entità urbana in grado di soddisfare i bisogni fisici, economici, sociali e umani. Quest’approccio continua a riflettersi nel più ampio piano generale della città e contribuisce a farne uno degli ecosistemi più smart e vivibili del pianeta.
Meno artistica ma non meno ambiziosa la nuova capitale del Myanmar, Naypyidaw: un progetto di vanità militare, realizzato tra il 2002 e il 2012. Costruita per volontà del generale Shwe, è una città a compartimenti stagni, determinata a tenere lo Stato a distanza dai suoi cittadini. È organizzata in sei aree generali: la zona ministeriale, quella alberghiera, diplomatica, residenziale, il villaggio preesistente di Pyinmana e il quartiere militare. Segmenti distinti e separati da grandi superfici vuote, uniti solo da un’enorme rete autostradale.
La scala di questa città è surreale: si estende per 7.057 kmq, nove volte la dimensione di New York City. Tutto è superdimensionato, soprattutto le strade, che hanno fino a venti corsie e corrono a perdita d’occhio. Nonostante l’elettricità sia affidabile e la connessione wi-fi veloce, quello che manca a Naypyidaw sono le persone. La città, che appare per lo più deserta, contava nel 2019 poco più di un milione di abitanti.
La nuova capitale dell’Indonesia: Nusantara o, più esattamente, Ibu Kota Negara Nusantara (capitale nazionale di Nusantara) dovrà sostituire l’attuale Giacarta, che sta affondando a una velocità media stimata di 1,5-10 cm. all’anno.
Un recente studio dell’Agenzia nazionale di ricerca e innovazione (Badan Riset dan Inovasi Nasional, BRIN) stima che il 25% del territorio urbano sarà sommerso entro il 2050. Già ora circa la metà dell’agglomerato è in effetti sotto il livello del mare. La prima causa del cedimento è la natura paludosa del terreno. Giacarta è una delle città più congestionate dal traffico al mondo e si estende su un’area di 661,5 km² lambita dal mare, attraversata da ben tredici fiumi, su cui si muovono e vivono circa 20 milioni di abitanti. Ad aggravare la situazione, poi, contribuisce il cambiamento climatico che innesca cicloni, alte maree e che, notoriamente, innalza il livello del mare.
Da qui la decisione del presidente Joko Widodo di traslocare la capitale, nella regione del Kalimantan, nel Borneo, la terza isola più grande del mondo. Abbandonare Giava, la più piccola delle cinque isole principali del Paese, fulcro per decenni delle politiche di sviluppo dei precedenti governi, consentirebbe di ridurre il divario economico con le altre isole dell’arcipelago. Attualmente il 58% del Prodotto interno lordo è prodotto a Giava.
Ma quanto tempo ci vorrà per trasformare questa idea in realtà? E quanti soldi? Widodo vorrebbe terminare il progetto nel 2024, prima della fine del suo mandato. Sembra difficile. Attualmente il valore stimato dell’impresa è tra i 30 e 40 miliardi di euro, di cui solo il 20% fornito dallo Stato, con il resto che dovrebbe essere garantito da aziende e fondi privati. Nusantara si svilupperà su 1.800 kmq di terreno, avrà alloggi per un milione e mezzo di funzionari pubblici e ospiterà il nuovo palazzo presidenziale, oltre alle sedi del Parlamento e dei Ministeri. Sarà una capitale smart e tecnologica, improntata alla sostenibilità. Però per i lavori è previsto il disboscamento di una giungla che ospita una tra le più ricche biodiversità del pianeta, in cui vivono indisturbati gli ultimi oranghi del Borneo, orsi malesi e scimmie nasiche. Si parla di green ma si altera l’ecologia.
Voluta dal presidente al-Sisi a circa 45 km dal Cairo, la città è ancora un grande cantiere in mezzo al deserto, dal costo previsto di 58 miliardi di dollari. L’inaugurazione, viene continuamente rinviata. Si tratta di un’impresa a dir poco faraonica: la nuova città dovrebbe arrivare a coprire circa 700 kmq. Una volta completata avrà un Parco Centrale due volte più grande di quello di New York, il più grande edificio di culto del Medio Oriente e il più grande Teatro dell’Opera fuori dall’Europa, con una popolazione prevista di circa 6 milioni di persone. La città consumerà circa 650.000 metri cubi di acqua al giorno, una cifra imponente se confrontata con le risorse della nazione nordafricana.
A che pro costruire una capitale nel deserto, a pochi chilometri dal Cairo? Secondo alcuni, la scelta di spostare il governo tradisce la paura di manifestazioni di piazza, come quelle che decretarono la caduta di Hosni Mubarak nel 2011. Ma esistono anche motivazioni strategiche e demografiche: la crescita annuale della popolazione del Paese è tra le più alte del mondo. Quasi 2 milioni di persone all’anno, che vivono principalmente lungo le rive del Nilo, occupando solo il 10% del totale della superficie. Un quinto dell’intera popolazione vive al Cairo (21 milioni), di questi una larghissima parte nei cosiddetti “insediamenti informali”c’è anche chi vive stabilmente tra le tombe del cimitero. Spostando i ministeri nella nuova capitale si allevierebbe sensibilmente la pressione sulle infrastrutture urbane.
In conclusione, rimane attuale la questione se le città immaginate e ipotizzate possono avere una marcia in più in termini di vivibilità e lungimiranza? Oppure è vero il contrario: restano una prospettiva intellettualistica, viziata di utopismo, che non può che allontanarsi dalle necessità concrete delle persone.
Si ripete una storia millenaria. Per unificare il suo regno, ma soprattutto per dare gloria al proprio nome, pare che il Faraone Menes, unendo Alto e Basso Egitto intorno al 3150 a.C., edificò Menfi proprio al centro dell’immenso territorio. La questione è sempre la stessa come allora. Da un lato la valutazione politica sul trasferimento delle funzioni di una capitale, dall’altro la necessità di progettare città futuribili o, come diremmo oggi, sostenibili, vivibili, inclusive. Le capitali progettate sono inevitabilmente dei veri e propri laboratori a scala reale, dove sperimentare le teorie urbanistiche, sperando di indovinarci.
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