Due turisti americani percorrono a passo veloce via della Navicella chiacchierando animatamente. Lui è alto, slanciato, fisico statuario, lei sembra una diva anni ’60, gonna lunga, bianca, svolazzante, cappello anch’esso bianco a tese larghe.
Passano davanti all’imponente portale di villa Celimontana, a neanche due metri da me, e di colpo si fermano ammutoliti. Gli sguardi rivolti verso le gigantesche cariatidi, le mani di lui che afferrano e stringono quelle di lei, le bocche aperte, il respiro trattenuto. Si avvicinano all’ingresso con una sorta di reverenza mista a stupore, sbirciano dentro, poi si guardano come a chiedersi con un linguaggio muto, perfettamente intuibile, “entriamo?”.
Un attimo dopo sono già nel viale che porta a Palazzo Mattei, edificio realizzato sul finire del ‘500 da Jacopo De Luca, allievo di Michelangelo, dal 1926 sede della Società Geografica Italiana. Li seguo per qualche secondo, poi entro anch’io.
La villa è una meraviglia, un capolavoro della fine del ‘500, rimaneggiato, ampliato più volte, fino ad assumere l’aspetto attuale che sorprende, incanta e ammalia il visitatore ignaro di trovarsi in un luogo che ha attraversato millenni di storia. Pini altissimi con le chiome verdi che accarezzano il primo cielo di un azzurro terso e vivo di stampo autunnale.
Viali curati con basse siepi che ne delimitano i lati, piante di ogni genere e forma, colonne, capitelli, frammenti di bassorilievi romani posizionati in modo non casuale nell’erba qua e là a ricordare le origini antichissime del luogo dove poi è sorta la villa.
Già, perché siamo al Celio, in un’area compresa tra le Terme di Caracalla e il Colosseo, tra le più belle e affascinanti di Roma. Mi inoltro in viale e vialetti, in un’atmosfera del tutto particolare, fatta di bisbigli di gente che passeggia, cinguettii di uccelli, acqua di fontanelle che zampilla illuminata dal sole, grida sommesse di bambini che giocano a pallone in una zona della villa dove le piante sono più rade e lo spazio più aperto, tra resti di antiche mura e cupole di chiese paleocristiane.
Noto con piacere che tutto è curato, non una carta per terra, cestini semivuoti, erba rasata, piante curate, panchine in perfetto stato. Improvvisamente due enormi orci su basamenti marmorei mi introducono al cospetto dell’obelisco egizio di Ramses II, al centro di un’area circolare circondata da enormi cipressi. Sembra un attore sulla scena di un teatro, impegnato in un monologo silenzioso di fronte a una platea muta e attenta. Lo contemplo nel silenzio, poi vedo una panchina libera, la raggiungo con passo leggero, quasi evitando di fare rumore per non disturbare la magia di un istante così particolare.
Mi siedo e lascio che le emozioni fluiscano libere mentre lo sguardo vaga mai pago di tanta meraviglia. Dopo continue testimonianze e denunce di degrado, avevo bisogno di bellezza. Ho trovato molto di più. Ho trovato finalmente un luogo dove cura e attenzione hanno creato un piccolo paradiso.
E allora ho provato ad immaginare come sarebbe Roma se questa cura e questa attenzione fossero applicate sistematicamente ovunque, dal centro alle periferie, e non solo in pochi casi eccezionali come questo.
Quale sorta di impareggiabile meraviglia apparirebbe agli occhi del visitatore, quali sentimenti susciterebbe e quali orgoglio e profonda gratitudine in chi oggi la vive quasi vergognandosi di lei.
Eh sì, perché la città più bella del mondo è purtroppo la più trascurata e abbandonata del mondo.
Calpestata da decenni di incuria, quasi ignorata dalle varie amministrazioni che si sono succedute nel tempo, è sprofondata in un abisso di degrado dal quale è sempre più difficile uscire.
Ma qui, a villa Celimontana, è accaduto un miracolo che fa sperare ancora. Qui Roma apre le sue braccia e accoglie turisti e cittadini in un abbraccio quasi consolatorio. Tra natura, storia e arte, c’è un piccolo tesoro, uno dei tanti, tantissimi, infiniti tesori di una città che aspetta da troppo tempo di essere amata, rispettata, protetta e valorizzata.
Ora lo sanno anche i turisti americani, che mi passano di nuovo davanti prima di guadagnare l’uscita, mentre il sole gioca col cappello a tese larghe di lei che ride e gesticola, felice e incredula, allungando un’ombra veloce e rassicurante sui miei pensieri e sul mio sogno di vedere un giorno rimarginate le profonde ferite di una città tanto unica quanto inspiegabilmente e colpevolmente abbandonata.
Luca Laurenti, Biologo
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