"Sui sei farmaci più venduti per il trattamento della depressione, gli studi raccolti dalla Food and Drug Administration (Fda) – pubblicati e non – portano alla luce che l'82% delle risposte di miglioramento a un farmaco attivo si possono riscontrare anche nei pazienti sotto placebo, riducendo al minimo la differenza". È quanto emerge dal primo studio pubblicato nel 2008 da Irving Kirsch, direttore associato del programma sugli studi di Placebo e docente di medicina presso la Harvard Medical School e Beth Israel Deaconess Medical Center. A dirlo è lo stesso studioso di Harvard, prendendo la parola al Congresso del Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi (Cnop) in corso giovedì scorso a Roma. "Fino ad allora ero sicuro che gli antidepressivi funzionassero. Poi mi sono detto, ci deve essere anche un effetto placebo forte, perché uno degli aspetti più pronunciati nelle condizioni depressive è l'assenza di speranza. Nel caso di un nuovo farmaco, il medico promette a quel paziente una speranza. Per questo ho pensato ci fosse una dose di effetto placebo", spiega lo studioso.
La mattina dopo la pubblicazione dello studio "ho scoperto che eravamo su tutte le prime pagine del Regno Unito. Sono passato da essere professore a supereroe o super-cattivo, dipende dai punti di vista", racconta Kirsch. Cio' che bisogna considerare è che quando diciamo che un farmaco funziona, "dobbiamo differenziare tra significatività statistica e clinica". La prima indica soltanto "se qualcosa può succedere per caso", la seconda, invece, ci dà riferimenti dal punto di vista degli "effetti sulla qualità della vita". Il National Institute for Health and Care Excellence (Nice), "che pubblica le linee guida per i servizi sanitari nazionali", ha stabilito che per sancire la significatività clinica "deve esserci una differenza di 3 punti
tra i farmaci attivi e i placebo. Noi abbiamo individuato, in ambito di depressione, una differenza di 1.8 punti". Perciò, puntualizza Kirsch, "la differenza tra farmaco e placebo è equivalente a nessun cambiamento. Questa rimane significativa dal punto di vista statistico, ma da quello clinico è come se
dicessimo al paziente che se sorride di più la sua vita aumenterà, però di 10 secondi".
I nuovi dati raccolti degli studi clinici presentati dalle aziende farmaceutiche alla Fda indicano che "su circa 73.179 pazienti la risposta ai farmaci attivi è di 10 punti sulla scala Hamilton contro 8.3 punti del placebo". Questo significa che, ancora una volta, la differenza tra farmaco attivo e placebo è
"come avevamo riscontrato di circa 1.8, cioè non significativamente rilevante dal punto di vista clinico". La realtà dei fatti, conclude Kirsch, "è che la maggioranza degli studi pubblicati dalla Fda, in base ai quali i farmaci sono stati attivati, riguardano gli effetti a breve termine", perché se ci
focalizzassimo su quelli a lungo termine "la psicoterapia ha di gran lunga migliori effetti dei farmaci", conclude lo studioso. (Dire)
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