Cronaca

Sanità pubblica: i medici ci sono ma non vanno più a lavorare in ospedale

Su una cosa i commentatori di politica sanitaria sono sempre stati concordi durante il recente periodo elettorale: i programmi dei partiti in tema di sanità si presentavano insufficienti e lacunosi. C’è del vero sicuramente, ma una scusa esiste: la sanità pubblica italiana (il SSN per capirci) dimostra tutti i suoi anni e, soprattutto, soffre di una grave malattia per la quale al momento attuale non appaiono proposte terapeutiche valide ed è il deficit della formazione degli operatori.

E la politica qui può molto poco perché per cambiare le cose, il sistema bisogna conoscerlo dall’interno e averci vissuto. Molto più facile promettere soldi e fingere di aver risolto il problema. Ma non è così. E spieghiamo perché.

Si parla sempre (ed è comprensibile) di sottofinanziamento della sanità ma, come diceva Prezzolini 50 anni fa, la miseria italiana è l’alibi dei governi per sprecare il pubblico denaro. Gli sprechi in sanità sono oramai leggenda, non meritano più commenti e in un Paese come questo non fanno più notizia. E non fa notizia anche la formazione degli operatori ovvero di medici e infermieri e questo si capisce meno. Infatti è inutile avere una TAC di ultima generazione se non c’è un radiologo capace di interpretare le immagini o una camera operatoria all’avanguardia, se non si dispone di chirurghi che sappiano muovere le mani.

Medici trasformati in impiegati

Tutto parte da un concetto burocratico che ha trasformato i medici in impiegati che timbrano il cartellino e non hanno alcuna voce nell’andamento della sanità. Il medico è diventato un numero di matricola, siamo un ministero in cui quello che conta sono i pezzi di carta, le timbrature e le delibere. Ma i ministeri non hanno mai curato nessuno. C’è il valore legale del titolo di studio, i medici sono tutti uguali, se sbagliano c’è la magistratura. Non mi sembra medicina. Ma andiamo per ordine. Si parla di carenza di medici, ma le statistiche europee dicono esattamente il contrario: i medici italiani sono estremamente numerosi rispetto ai colleghi europei.

Il problema è che non vengono a lavorare in ospedale, perché oramai il lavoro ospedaliero non è più gratificante e spesso i concorsi, in particolare quelli dell’area dell’emergenza, vanno deserti. I motivi sono ben noti a chi, come chi scrive, da circa quarant’anni lavora nel settore: aggressioni, violenze fisiche, stipendi assolutamente inadeguati, formazione a carico del dipendente, scarse possibilità di carriera e, soprattutto, un contenzioso medico legale spesso immotivato o motivato da aspettative irrealizzabili o, peggio, da persone disoneste che trascinano in cause infinite famiglie in buona fede, con il miraggio di risarcimenti cospicui.

Le violenze nei Pronto soccorso

In queste condizioni è incredibile che si presenti ancora qualcuno ai concorsi, senza contare che le scuole di specializzazione dell’emergenza hanno i posti vuoti. E alla fine una postilla doverosa riguardo alle violenze nei pronto soccorso. A questi facinorosi è inutile dare anni di galera, bisogna dare anni di sospensione dal Servizio Sanitario Nazionale. Chi si rende responsabile di un atto di violenza se si ripresenta in un ospedale pubblico dovrà pagare ogni prestazione come se andasse in clinica privata, per tutto il periodo stabilito dal giudice. In un Paese in cui si pignorano case per debiti inesigibili mi sembra una punizione assolutamente adeguata. E che potrebbe far passare la voglia a molti. E chiudo il discorso legale.

La formazione dicevamo. Sono spesso a contatto con i giovani delle scuole di specializzazione e la loro insoddisfazione, in particolare per i chirurghi, è grande. Il sistema di farli ruotare da un ospedale all’altro apparentemente può essere formativo, ma nella realtà non consente di creare uno specialista “chiavi in mano”; girare tra molte specialità forse permette di farsi un’idea di ognuna, ma senza poterne padroneggiare nessuna alla fine dei cinque anni di corso.

L’ospedale di insegnamento

Il risultato è di avere, e parlo soprattutto per i chirurghi, dei tuttologi che però al tavolo operatorio sanno fare molto poco. Il rimedio ovviamente esiste ed è a portata di mano, ovvero copiare quello che si fa negli altri Paesi. Far diventare gli specializzandi dei “resident” ovvero dei medici che “vivono” nell’ospedale con un loro alloggio per tutti gli anni della specializzazione, collaborando quotidianamente con le attività cliniche e chirurgiche. Insomma “l’ospedale di insegnamento”. Alla fine dei cinque anni, a meno di non avere a che fare con colleghi dotati di due mani sinistre, le più comuni procedure chirurgiche saranno sicuramente in grado di eseguirle.

Troppo semplice? Infatti. Il vero problema è che l’Università non ha nessuna intenzione di lasciarsi strappare il privilegio (forse uno degli ultimi che li è rimasto) della formazione. Sarebbe ora di cambiare passo. Questo rimedio dei “resident” risolverebbe anche il problema della carenza di medici in ospedale. Si tratterebbe di una iniezione di giovani assolutamente salutare.

Appartengo alla generazione che non ha potuto usufruire dello stipendio da specializzando e quello che fanno oggi i giovani noi lo facevamo gratis. Il vecchio Paolucci De Calboli, chirurgo ed eroe della marina militare, diceva che il giovane chirurgo doveva scordarsi delle tre M: “macchina, mutue e moglie”. E per quelli della mia generazione è stato così. Ma avendo avuto degli ottimi maestri non rimpiango nulla e poi la vita “bohemien” del giovane chirurgo era molto romantica. E dato che di soldi non se ne vedevano era anche una buona scusa, con la fidanzata del momento, per non sposarsi. Scherziamo ovviamente.

La graduatoria del concorso di specializzazione servirebbe ai ragazzi per scegliere l’ospedale dove svolgere il loro apprendistato, continuando così i valori delle scuole chirurgiche ospedaliere e rimpolpando gli organici. E scusatemi ancora se parlo da chirurgo, ma questo va detto. Deve essere riaperta immediatamente la possibilità di accedere alla medicina operatoria. Senza voler entrare in macabri particolari, ritengo impensabile che si arrivi al paziente senza una adeguata preparazione anatomica che si può compiere solo sul cadavere.

La medicina operatoria

Come sapete la medicina operatoria è stata proibita dai patti lateranensi e a tutt’oggi, non nascondiamocelo, viene praticata in sordina, con il divieto di dissezione su parti del corpo quali il volto o gli arti. Credo che se la gente prendesse coscienza che la chirurgia si impara sul vivente avremmo come minimo delle manifestazioni di piazza, ma in questo paese la salute viene considerata un problema del medico e non del malato. Regolamentata rigorosamente, con programmi ben definiti per specialità e sotto una scrupolosa supervisione, la medicina operatoria deve rientrare nella routine degli specializzandi chirurghi. Senza se e senza ma.

Le nostre nonne dicevano “val più la pratica che la grammatica”. E avevano ragione. Quando sento dire che i nostri medici all’estero si dimostrano i migliori, mi viene (come diceva qualcuno anni fa) di portare istintivamente la mano alla fondina della pistola. Il nostro è un mestiere pratico ed è proprio la pratica quella che manca agli studenti italiani di medicina. Sicuramente imbottiti di nozioni e protocolli, ma disperatamente digiuni di una formazione “hands on”. Venendo dalla generazione della pletora medica, di cui sono stato una delle vittime e neanche tra le più illustri , so quello che dico.

La prova provata è che all’esame di Stato (di cui mi è sempre sfuggita l’utilità) ci vengono richieste nozioni che l’Università ha già certificato con la laurea che possediamo. Come dovrebbe essere l’esame di Stato secondo chi vi scrive? Mettere un tubo di drenaggio nel torace, fare una tracheostomia, montare una flebo, praticare un massaggio cardiaco, suturare una ferita, fare correttamente una medicazione. Queste dovrebbero essere le prove che chi vuole occuparsi della salute della gente dovrebbe essere in grado di compiere. Medico o chirurgo che sia. Sono le basi. E ne ho visti molti di colleghi far ridere gli infermieri perché non erano capaci di prendere una vena.

Si dirà: ma il medico deve sapere “cosa mettere” nella flebo. Bravo. E se sei da solo a casa del paziente la flebo chi gliela mette? E’ chiaro che un simile insegnamento richiede tempo, voglia e dedizione, ma è assolutamente necessario per avere quel medico “chiavi in mano” di cui abbiamo un disperato bisogno. In un mio viaggio di lavoro in Cina ha visto un intero ospedale con camere operatorie, reparti di rianimazione e terapia intensiva assolutamente finti. Con tanto di manichini per insegnare a mettere cateteri ed intubare. Gli studenti venivano filmati durante le esercitazioni e osservati da una cabina di regia, che poi li correggeva. E vi garantisco che una simile organizzazione costa assai meno di una causa medico legale. A patto di volerla fare.

Il numero chiuso e il diritto allo studio

E per finire veniamo al numero chiuso. I ragazzi oggi non sanno che se trovano lavoro è proprio perché è stato istituito il famigerato “numero chiuso”. Vi ho già detto che vengo dalla generazione della “pletora medica” e non insisto sull’argomento. L’Italia è un paese in cui ci si accapiglia sulle parole e sul numero chiuso si è scomodata addirittura la Costituzione con il “diritto allo studio”; l’avessero chiamato “numero programmato” probabilmente non si sarebbe arrabbiato nessuno. La realtà è molto più semplice e anche scomoda. Il fabbisogno di medici non può essere lasciato al caso, deve essere il frutto di una attenta programmazione sulla base delle specialità richieste, delle possibilità formative delle Università, delle caratteristiche della popolazione e degli ospedali.

La parola programmazione in Italia è sconosciuta, lo sappiamo, la demagogia fa il resto. Ma chi come me passava le mattine girando per il Policlinico cercando l’aula dove si sarebbe fatta lezione insieme ad altri disperati, sa bene che una didattica seria ha delle necessità ben precise. E non si può fare a “quadrati battaglioni”. In realtà quello che si vuole non sono dei “medici”, ma dei laureati in medicina, che è un qualcosa di totalmente diverso, creando un sottoproletariato medico da sbattere nei reparti con potere di firma, timbro, cartellino da timbrare e pagandolo due soldi. Non mi sembra una soluzione.

In conclusione, non siamo entrati nell’ambito dell’organizzazione del SSN, ma in quella che riteniamo la parte da privilegiare: la formazione del medico e del personale sanitario. Le idee che abbiamo elencato per essere realizzate non necessitano di grossi investimenti (gli specializzandi già sono pagati), ma di organizzazione e programmazione accorta, che possono essere fatte non da esperti di “management” ma da chi la sanità la vive sul campo. E che oggi ne è escluso. L’Azienda è nulla senza l’uomo, bisogna ripartire da quello e vi garantiamo che non sarà facile. Ma almeno bisogna provarci.

Alberto Garavello

Redazione

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