All’inizio non ti accorgi di lui. L’unica cosa che vedi è un mucchio di coperte abbandonate sul marciapiede tra foglie e rifiuti accanto a un muro dove un cartello recita “zona militare, limite invalicabile”.
Ma quando ti avvicini, scopri che quello che appare a tutti gli effetti l’ennesimo cumulo di immondizia abbandonata mai raccolta, uno dei tanti che siamo purtroppo abituati a vedere spesso nelle strade di Roma, è il giaciglio di un uomo che ha trovato riparo in una nicchia del muro di una istituzione militare. E lui dorme su un fianco, la schiena rivolta alla strada, alcuni cartoni come isolante dal gelo dell’asfalto, una felpa rossa sporca che copre un corpo gracile, la testa semi-nascosta appoggiata al muro.
Siamo in viale Pretoriano, a pochi passi dalla stazione Termini, a ridosso delle Mura Aureliane e della mensa della Caritas.
È una strada tristemente famosa per la costante presenza di sbandati e senzatetto che vivono in tende sgangherate o giacigli rimediati alla meno peggio e ciclicamente vengono sgomberati dalle forze dell’ordine per poi tornare e riformare una sorta di bidonville che occupa tutto il prato intorno alle mura.
I pedoni evitano di percorrere quel tratto di strada maleodorante cosparso di rifiuti, indumenti sporchi, urina ed escrementi e si affrettano a guadagnare il marciapiede opposto, proprio dove si trova il giaciglio dell’uomo con la felpa rossa.
Nessuno nota quel corpo immobile all’interno di una nicchia divisa a metà da una grondaia rotta.
La gente passa, circumnaviga il mucchio di coperte e prosegue a passo svelto verso l’Università o il Policlinico Umberto I o la stazione Termini mentre un esercito di disgraziati senzatetto osserva il viavai frenetico con sguardo spento e chissà quali pensieri.
Il problema della povertà, a Roma, ha assunto connotati allarmanti.
Al di là di slogan momentanei o interventi sui social di qualche politico che si attribuisce, con toni trionfalistici, il merito di aver “bonificato” (lo stesso termine che si usa quando si parla di degrado materiale al quale quello umano viene paragonato) questo o quel territorio, non esiste una benché minima bozza di piano serio per arginare una situazione sempre più drammatica, insostenibile, inaccettabile.
Da viale Pretoriano a via Statilia, da via Marsala a via Tiburtina, giardini, ville, parchi, marciapiedi, sottopassi, cavalcavia, perfino i monumenti della Roma antica, dove troneggiano panni stesi ad asciugare che i turisti immortalano in foto-ricordo da mostrare al ritorno a casa, assurgono a sistemazioni di fortuna di un numero crescente di nullatenenti che vivono in un degrado inimmaginabile, indegno di una città che si professa accogliente ed inclusiva.
Eppure parliamo di esseri umani, persone come noi cui un destino insondabile quanto crudele, ha riservato una vita che non è vita.
Uomini, donne spesso con una storia alle spalle di soprusi e violenza che neanche immaginiamo e che la politica ignora invece di proteggere.
E se il Natale come si dice, ci rende tutti più buoni, forse dovremmo finalmente riflettere seriamente su questo.
Magari potremmo smettere di correre, osservare al di là dei nostri piedi, accorgerci che c’è un mondo intorno a noi dove è negato anche solo il sognare, un mondo che ci guarda e che ci chiede aiuto.
E al quale non possiamo non rispondere, non possiamo non tendere una mano.
Non è così difficile.
Basterebbe semplicemente chiedersi ogni tanto “e se fossi io” per dare un senso a un Natale.
Per farlo diventare un vero Natale.
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