Il Vangelo (Lc. 13, 1-9) che ascolteremo domenica III di Quaresima, ci presenta due fatti di cronaca: un’uccisione e un incidente con molte vittime. Nel primo caso è in gioco la libertà e la cattiveria dell’uomo, nel secondo caso l’ineluttabilità e la violenza del creato. Unico è l’orizzonte: quello della morte, che l’uomo vive sempre con indebita violenza. Questi due avvenimenti richiamano in modo esemplare ciò che maggiormente scuote la fede del credente: perché Dio permette i soprusi e le violenze, i disastri e i terremoti? Nel primo episodio ci si aspetta da Gesù che giudichi tra cattivi e buoni. Nel secondo è implicita l’obiezione di fondo: che fiducia si può avere nel Padre, se gli innocenti soffrono? Gesù li prende come modelli di difficile discernimento, per dare al credente una chiave di lettura per gli avvenimenti storici e naturali. Il male, che c’è sia nell’uomo che nelle cose, è misteriosamente connesso con il peccato. E’ vero che tutti abbiamo peccato, ma il nostro male è il luogo della salvezza. Tutti gli avvenimenti sono quindi da leggere ad un livello più profondo, in termini di perdizione e di salvezza: svelano la perdizione dalla quale ci salva la conversione al Signore. Il male è dentro di noi e occorre convertirci, discernendo qual è il lievito che muove la nostra vita: la paura del bisogno che ci porta ad aver di più o la fiducia filiale che ci porta al dono? La soluzione del male non sta in una sua analisi più corretta, ma nel cambiare il lievito: mutare il senso della vita, convertendosi al Signore. Il male costituisce una sfida per la fede: la può far crollare o rafforzare, negare o cambiare di qualità.
“…gli riferirono circa quei galilei il cui sangue Pilato mescolò con i loro sacrifici” (v. 1). Si tratta di zeloti, nazionalisti avversi ai romani, che Pilato osò trucidare nel tempio, tingendo di sacrilegio l’oppressione. Come risponde Gesù davanti alle loro aspirazioni di libertà? Anch’ egli verrà ucciso simultaneamente da Pilato e dai suoi avversari. Gli opposti poteri si congiungeranno contro di lui, perché rifiutò il lievito stesso che li nutre. Galileo anche lui, i potenti verseranno il suo sangue di vittima dell’ingiustizia. Non ha voluto tamponare le falle del vecchio sistema: ha posto le basi del Regno in un nuovo rapporto col Padre e coi fratelli. Il credente, che vive in questo mondo di male insieme con tutti gli altri, è chiamato a discernere sul lievito che muove la sua azione: la paura della morte che rende egoisti, o la conoscenza del Padre che fa amare i fratelli? Preferiamo il lievito dell’avere, del potere e dell’orgoglio o quello della povertà, dell’umiliazione e dell’umiltà?
“Vi pare che quei galilei fossero peccatori più di tutti i galilei?”. Gli informatori si attendono che Gesù difenda quei galilei, condannando Pilato come peccatore, ingiusto e sacrilego: il che è fuori questione. Ma Gesù non è venuto a condannare nessuno, bensì a salvare tutti. Per questo vuol portarci a un punto di vista superiore, e sposta l’attenzione da Pilato alle sue vittime, vittime anzitutto del medesimo peccato. Infatti hanno tentato il suo stesso gioco. Erano più deboli, e l’unica ragione che hanno è quella di aver perso! Il bene infatti va perseguito con mezzi buoni.
Il fine non giustifica i mezzi. Gesù, nelle tentazioni e in tutta la sua vita, ha rifiutato come mezzi del Regno quelli del nemico: ricchezza, potere e orgoglio. Gesù smaschera il male che è nel cuore di ogni uomo, ma senza manicheismi e demonizzazioni. Gesù giudica il male e giustifica l’uomo: salva l’uno battendo totalmente l’altro.
“Se non vi convertite perirete tutti così”. Lo stesso peccato, ovvio in Pilato e smascherato nelle sue vittime, è ora trasferito anche sugli uditori. Il male, visto sul volto altrui, fa da specchio al nostro e ci chiama alla conversione. Il discernimento ci fa cogliere l’intima connivenza che abbiamo con esso e ci porta a cambiare il criterio della nostra azione. Dunque, convertirsi o meno è questione di vita o di morte. La perdizione non è una condanna comminata dall’esterno: è il frutto della disobbedienza, prodotto dal male che facciamo. Essa non è tuttavia ineluttabile: la conversione ce ne scampa. Oggi, se non ci convertiamo, è vero che periamo tutti. Non per volontà di Dio, ma per volontà, o meglio stupidità, nostra!
“Cadde la torre…”. E’ un drammatico evento naturale, senza apparente responsabilità umana, come nei terremoti, nelle carestie, ecc. Sono quei fatti, casuali e inevitabili, che mettono in forse la fede nella paternità di Dio e nella sua provvidenza. E’ il dubbio inconfessato e profondo di ogni credente. Gesù lo prende in seria considerazione, prevenendo la domanda che urge nel cuore degli interlocutori. La realtà ci fa constatare che, come l’uomo è assai cattivo, anche la natura non è per nulla buona con lui. E’ più matrigna che madre. E’ istintivo interpretare le calamità naturali come castigo: Gesù non mette in dubbio che siamo tutti peccatori. Ma questi fatti non sono da intendersi come punizione, bensì come urgenza di conversione. Ci richiamano infatti il nostro limite e la nostra fragilità originaria, che, dopo il peccato, è divenuta tragica. Il peccato originale, come ha guastato l’uomo, così ha sottoposto all’insensatezza anche la natura che aveva in lui il suo fine. Si è rotta l’armonia uomo-mondo, e ogni evento insensato ci richiama a cercare nella conversione il senso di una vita che il peccato ha esposto al vuoto.
La nostra conversione non è considerare la vita biologica come valore assoluto: è per questa che si accumula e si fanno tutte le ingiustizie. Il valore assoluto è la fraternità e solidarietà a livello interpersonale e sociale. Questa è già vita eterna, che nella morte non ci viene sottratta. La conversione radicale è uscire dal delirio di onnipotenza: accettare la vita e la morte come comunione con Dio.
“lascialo ancora per quest’anno” (v. 8). La parabola del fico che non porta alcun frutto è trasparente: il Padre e il Figlio si prendono cura dell’uomo e non si attendono altro che egli risponda al loro amore. Ma come il fico è sterile, così l’uomo non si decide a fare frutti di conversione. Dio non gode della rovina, ma della conversione: è la misericordia di Dio che fa dire al Figlio: lascia, perdona ancora per quest’anno. Questo è il senso profondo della storia: è l’anno della pazienza e della misericordia di Dio, una dilatazione della salvezza e una dilazione del giudizio, ancora sempre per un anno, da allora fino a ora e fino alla fine.
Bibliografia consultata: Fausti, 2011.
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