Serie Baby. Per una giovane che si affaccia alla vita sociale, gli ambienti una volta definiti “ovattati” non presentano meno insidie delle periferie disagiate delle metropoli.
Baby ci porta fra gli privilegiati liceali che abitano i quartieri della buona borghesia romana. Nell’arco di tre stagioni (l’ultima, finale, è stata appena rilasciata) assistiamo alla discesa agli Inferi e (possibile) risalita di due compagne di scuola / amiche /alleate, Ludovica e Chiara, finite in un giro di baby-squillo.
Esplicitamente ispirata a un noto fatto di cronaca del 2014 avvenuto a Roma. La vicenda, partita dalle ragazze, raggiunge a macchia d’olio tutto un sottobosco di responsabili diretti o indiretti. Le famiglie, la scuola (un istituto privato), i procacciatori, i clienti.
Ludo e Chiara scivolano in un gioco più grande di loro. Per sottovalutazione della portata del gesto, per la confusione di valori della società in cui sono immerse, per la distrazione o talvolta opaca complicità dei genitori, per reazione al clima scoraggiante di un mondo giovanile dipinto come svuotato, o mai riempito: assenti le passioni ma apparentemente anche i semplici interessi, mai un sentimento o fosse pure un’emozione a trainare una scelta, una svolta.
Sono assenti quei riti collettivi che pur nella loro evanescenza hanno riempito i ricordi delle generazioni che li hanno preceduti. Confronti di idee (magari a quell’età anche illusorie) fra ragazzi: non pervenuti. Finiamo quasi per giustificare il percorso imboccato dalle due adolescenti, e da tante loro simili che intrecciano le proprie alle loro storie. Ma in questo forse sta un primo punto debole della sceneggiatura: l’affrancare le protagoniste da ogni colpa, in nome dell’età, del contesto, del “sistema”. Un momento di lucidità lo ha Chiara all’uscita dal tunnel, quando – offertale da altri la scappatoia assolutoria dell’esserci stata costretta – ammette con aria spenta di averlo pienamente voluto.
Come presa sullo spettatore, l’andamento della serie è discontinuo. Ad una prima stagione vivace e abbastanza urticante, che incuriosisce, fa seguito una seconda di calma piatta, dominata da situazioni, dialoghi stereotipati e montaggio da fiction di Rai1, o da serie ragazzesca del pomeriggio, in cui il dito del sottoscritto è stato più volte in procinto di chiuderla lì.
Parziale colpo d’ala alla terza e ultima stagione che, riprendendo ritmo anche grazie alla finale piega legal, si riconcilia con il pubblico e guadagna la sufficienza a tutto il pacchetto.
Ci sono buone interpretazioni; ottima, secondo noi, quella di Alice Pagani / Ludovica, che interpreta credibilmente lo smarrimento che trasforma la voglia di vivere in un impulso schizofrenico. Ne sentiremo parlare ancora. Adeguata quella di Benedetta Porcaroli / Chiara, gatta morta non sappiamo se nella finzione o anche nella realtà ma comunque funzionale al personaggio. Avremmo fatto invece a meno delle performances delle due madri, Isabella Ferrari quella di Ludo, puro teatro Kabuki, e Galatea Ranzi quella di Chiara, all’opposto tutta leziosità e mossette.
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