Serie Tv: La Regina degli scacchi su Netflix, l’ho vista e ve la raccomando
La narrazione dela Regina degli scacchi non è in chiave realistica: non deve ingannare l’iper-realismo della scenografia e dei costumi
La Regina degli scacchi. Se non sapete giocarci, escludereste di poterne restare presi?
Quando a fine ottobre è uscita, nonostante fosse subito assurta a serie più vista del giorno su Netflix, pensavo che mi fosse bastato il trailer: un tema molto specialistico e ossessivamente rappresentato in tutto l’arco della serie. Una protagonista truccata e ripresa come una androide di certi moderni film di fantascienza ambientati nei ’50-’60 del ‘900; la cura maniacale nella ricostruzione degli ambienti di quegli anni, che oggi rasenta talvolta uno stucchevole manierismo.
Ma poi l’ho vista. E ho fatto bene, e ve la raccomando.
Nel titolo italiano (curiosamente identico a quello di un film di Claudia Florio che aveva brevemente circolato nel 2002) è contenuto un mezzo spoiler; preferisco l’originale The Queen’s gambit (Gambetto di Donna),quello del romanzo di Walter Tevis da cui è tratto: oltre a citare una storica “apertura” degli scacchi, contiene un gioco di parole (gambit può anche alludere allo strategemma della protagonista di proporsi in un mondo solitamente appannaggio dei maschi pur di affrancarsi dalla propria marginalità).
Oltre che ad una perfetta, geometrica sceneggiatura, la serie poggia sulle spalle di colei che interpreta la protagonista Beth Harmon: l’anglo-argentina Anya Taylor-Joy, a cui il regista assegnò il ruolo quando ancora non esisteva uno script: semplicemente le inviò una copia del romanzo. E’ lei a dare magnetismo, attesa, un tocco di magia al personaggio e alle sue scelte. Grazie anche alle sapienti inquadrature, con primissimi piani su quegli occhi un po’ marziani che lasciano il resto fuori fuoco.
La narrazione non è in chiave realistica: non deve ingannare l’iper-realismo della scenografia, dei costumi, insomma delle maniacali ricostruzioni d’epoca. Sono citazioni quasi oniriche, come appunto gli scenari di una fiaba, quale per certi versi La Regina degli Scacchi è. E della fiaba ha anche lo stile narrativo, mai esplicitamente introspettivo: tutto cade sempre un po’ dall’alto, ammantato da un’atmosfera sur-reale.
Ciò non toglie che la storia racconti la parabola di una liberazione psicologica: il progressivo affrancamento di un’orfanella del Kentucky da una condizione di soggezione a quella di prendersi la vita nelle proprie mani e cercare il successo sul terreno dei maschi. Sempre in bilico tra due poli: genio e ossessione. Il genio di una mente speciale, di un’intelligenza inventiva; l’ossessione del suo più remoto passato, dei farmaci psicotropi, dell’alcool.
Una scommessa insidiosa viene lanciata e vinta: creare suspense con gli scacchi anche nei profani, da partite raccontate come thriller ma allo stesso tempo rigorosissime (l’ex-campione del mondo Garri Kasparov come consulente ed anche “allenatore” degli attori, affinchè i gesti fossero credibili, le mosse autentiche, precisa la disposizione dei pezzi). Resta preso il giocatore sofisticato (come dimostrano gli elogi piovuti dalla comunità scacchistica), resta preso lo spettatore comune pur senza capire niente di teoria.
Ma farei torto alla vostra politica correttezza se trascurassi di menzionare alcune critiche riguardanti il fatto che come partite autentiche prese a modello per quelle sul set sono state utilizzate esclusivamente partite fra giocatori maschi. La Woman Grandmaster Jennifer Shahade ha scritto su Twitter che “la serie è splendida ma usare alcune partite di donne sarebbe stato fantastico”. Vabbè.
La Regina degli scacchi (The Queen’s Gambit).
Serie, USA 2020, 1 stagione di 7 episodi, durata 46-67’. Ideazione: Scott Frank, Allan Scott. Soggetto: Walter Tevis, autore del romanzo omonimo. Regia: Scott Frank. Distribuzione: Netflix.