La signora Daniela accoglie i visitatori seduta su una sedia, davanti al piccolo museo da lei creato nel 2000.
Spiega di cosa si tratta e, al termine della breve presentazione, avverte che non c’è biglietto, ma è gradita un’offerta al termine della visita. Il Museo “C’era una volta” di Sermoneta è costituito da sei quadri nei quali sono raffigurati tradizionalmente i cicli della vita locale di un tempo: la raccolta delle olive, la pesca con la bilancia, la masseria e la lavorazione dei formaggi, l’allevamento degli animali, la lavorazione dei campi, lavorazioni artigianali (paglia, legno, pellami, vetro, terracotta), ambienti (piazza dei mercanti, botteghe), scene di vita domestica.
La particolarità sta nei personaggi che sono realizzati a mano e sono dotati di un meccanismo per farli muovere. Gli scenari, meravigliosi, sono realizzati con vari materiali: sughero, cartapesta, stucchi, gesso, e terrecotte.
Entri e rimani folgorato dalla visione di un qualcosa che non ti aspetti.
All’inizio sembra di essere di fronte a un presepe poliscenico, ma poi realizzi subito che si tratta di tutt’altro.
Non una rappresentazione natalizia di bontà e felicità collettiva, ma quella della fatica, del duro lavoro, dei mille mestieri di una volta, quelli che deformano volti, schiene, mani, quelli che i nostri nonni ci raccontavano da piccoli con un misto di nostalgia e orgoglio, con lo sguardo rivolto ad un tempo lontano, travolto dai tempi moderni, sul quale lentamente si sono spente le luci.
E tutto è in movimento, corpi che si chinano, mani che alzano e abbassano strumenti, tendono, tagliano, filano, impastano, seminano, creano, aggiustano; pare quasi di sentirla respirare, questa silenziosa gente di paese di un tempo che fu in un luogo che fu e ti verrebbe da allungare una mano, tergere il sudore, accarezzare o solo ringraziare ognuno dei protagonisti di queste storie di vita vissuta, realmente vissuta che noi di oltre un lustro di età abbiamo sfiorato e che i nostri figli già ignorano.
Così ad ogni “quadro” mi fermo.
Osservo ogni particolare.
Mi immergo in quel mondo che a volte rimpiango, a volte cerco.
Allungo la mano senza toccare.
E lascio che il mio ringraziamento silenzioso tinga di rosa le guance di quei volti, di quelle donne e di quegli uomini che hanno permesso a me, oggi, di essere qui a sognare che siano veri e che ancora possano popolare quel mondo che ha aperto il futuro alle generazioni successive.
Dunque, Sermoneta non è solo il Castello Caetani.
Sermoneta è molto di più. Sono i vicoli medievali che scendono e salgono, curvano mostrando scorci mozzafiato sulla piana di Latina.
Sermoneta è il profumo dei biscotti appena sfornati che ti entra fino al midollo, ti insegue mentre le sue mura secolari sorridono del tuo desiderio di perderti, aggiunge zucchero, miele, marmellata di visciole e mandorle tostate al turbinio dei tuoi pensieri e non ti lascia neanche quando sei tornato a casa.
È la Cattedrale di Santa Maria Assunta con il suo portico gotico e il suo campanile romanico all’ombra del quale i bambini giocano a palla e quando entri e lo sguardo si perde tra austere colonne in pietra e archi ogivali, non ti sorprenderebbe veder camminare in animata conversazione Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, protagonisti del famoso romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”.
Sermoneta è anche ciò che non è Sermoneta. È la solitaria abbazia cistercense di Valvisciolo, poco lontana, con il suo meraviglioso chiostro, immersa nel verde e nel silenzio.
È l’oasi di Ninfa, il più bel giardino del mondo, secondo il New York Times, uno di quei rari, rarissimi luoghi dove l’uomo lascia in pace la natura, rispettandone i cicli senza influire in alcun modo sulla convivenza armoniosa tra le diverse specie di piante, senza mai intervenire se non in caso di assoluta necessità.
In mezzo a tanta bellezza, tra rovine antiche di una cittadina fiorente, anche se per poco tempo, nel medioevo, e la gioiosa e colorata esplosione di un mondo, quello vegetale, libero di evolversi, mutare, prosperare e offrirsi in tutta la sua infinita gamma di colori e odori, proprio immerso in tutto questo, io ritrovo la stessa atmosfera di quel piccolo museo che apre e chiude la mia visita a Sermoneta, là dove tutto sembra vivo e si muove seguendo un ritmo proprio, incurante del tempo che passa.
Con i personaggi creati da Daniela a immagine e somiglianza dei suoi compaesani presenti e passati a miglior vita, che mi ricordano improvvisamente, animandoli di un soffio vitale, quelli di cui da piccolo mi parlava mio padre con sguardo un po’ sognante e un po’ malinconico, quando mi raccontava della vita del suo piccolo paese d’Abruzzo, Pereto, nel quale ha origine metà del mio patrimonio genetico, dove si raccoglievano le castagne cantando e dove le donne in chiesa recitavano, storpiandolo perché fosse comprensibile, il “tantum ergo sacramentum” facendolo diventare “quant’è antico sto’ strumento”.
E mentre sono a casa e rivivo le emozioni di una giornata piena di sorprese e ricordi, il rintocco della campana della chiesa vicino casa mi riporta in quella di Sermoneta e da lì, con un salto, a quella di Pereto nella quale, nella mente di me bambino, si conservava un misteriosissimo, antico strumento che, oggi come allora, ancora solletica la mia curiosità di attempato sessantenne.
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