La sfiducia a Bonafede continua a essere il piatto forte del menù politico. Ma, come sovente accade con l’alta cucina, rischia di appassionare più di quanto non sazi. Eppure, da giorni tiene sulle spine non soltanto il diretto interessato, bensì l’intero Governo rosso-giallo. E probabilmente non è un caso che, mentre il voto si avvicina, il bi-Premier Giuseppe Conte abbia preso posizione su una delle diatribe in corso. Appoggiando, manco a dirlo, la linea di Italia Viva a spese di quella del M5S.
Il Ministro della Giustizia ha tenuto alla Camera un’informativa urgente che aveva il forte sapore di un’arringa. E lo ha fatto, nel tipico stile pentastellato, non rispondendo nel merito ai rilievi legati ai due casi (pseudo)giudiziari del momento.
Quello davvero importante, ça va sans dire, è il cumulo di scarcerazioni “facili” dei boss mafiosi legate ai timori di un contagio da Covid-19. Una vicenda vergognosa, di cui in un primo tempo il Guardasigilli ha addirittura negato l’esistenza, bollandola come menzogna. Finché non è stato sbugiardato in diretta televisiva da Massimo Giletti.
A quel punto, in analogia con Giuseppi, è intervenuto un Alfonso 2 evidentemente ignaro delle parole e degli atti di Alfonso 1. Un gemello o un sosia che, come se niente fosse, ha annunciato il Dl per rivalutare la concessione dei domiciliari ai capi della criminalità organizzata. È il primo caso di una toppa messa senza aver neanche ammesso l’esistenza del buco, ma almeno lo ha fatto. A differenza del doveroso mea culpa, neppure accennato.
Anzi, l’ex dj, evocando anche presunte strumentalizzazioni, ha attaccato sulle «ormai note scarcerazioni». Le quali «sono state determinate da decisioni prese, in piena autonomia e indipendenza, dai magistrati competenti (nella maggior parte dei casi per motivi di salute)». Cosa che, en passant, significa che evidentemente ci sono stati casi di padrini rilasciati per ragioni che esulavano dal coronavirus. Il che non stupisce neppure, considerando che, come sottolineato dal Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, i detenuti al 41bis sono in isolamento.
Anche volendo far finta di non notare questa bazzecola, comunque, l’autodifesa del Ministro-a-sua-insaputa fa acqua da tutte le parti. Se infatti si trattasse solo di «strumentalizzazioni», perché si sarebbe affrettato a porvi rimedio, oltretutto con uno strumento urgente come un Decreto?
Allo stesso modo, è quantomeno inelegante cercare di scaricare su terzi (togati, oltretutto) qualunque responsabilità. D’altronde, è sempre parte del metodo Cinque Stelle applicare a se stessi quella, diciamo, elasticità che invece si rifiuta a chiunque altro. Come ha evidenziato il deputato di Noi con l’Italia Maurizio Lupi.
Poi c’era l’altro versante, quello dello scontro giacobino con Nino Di Matteo che ha gettato pesanti ombre sulla propria mancata nomina alla guida dell’amministrazione penitenziaria. Un diniego che, secondo l’icona antimafia, sarebbe legato alle rimostranze di alcuni uomini d’onore ospiti delle patrie galere, risoltesi con la scelta di Francesco Basentini.
Il titolare della Giustizia ha affermato una volta di più che «non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo» del Dap. Allo stesso tempo, però, ha ammesso che «le esternazioni di alcuni boss all’interno del carcere» erano «note al Ministero dal 9 giugno 2018».
Quindi è solo per eterogenesi dei fini che la risoluzione di via Arenula si è magicamente saldata coi diktat dei ras della criminalità organizzata. Una coincidenza piuttosto curiosa, che potrebbe far pensare che abbia ragione Vittorio Sgarbi quando parla di Ministro Malafede. Anche perché il resto della filippica del Guardasigilli non era altro che uno sfoggio retorico infarcito di confini dell’onorabilità e neo-intolleranza alle allusioni.
Di fatto, l’esponente del MoVimento non ha chiarito nulla, né si è fatto carico delle conseguenze della propria decisione. Perché è stata una circolare del Dap guidato da Basentini ad agevolare la famigerata scarcerazione dei circa 400 boss mafiosi. Lungi da noi, sia chiaro, voler instaurare qualsiasi rapporto causale tra gli eventi, dei quali ci limitiamo a notare lo sviluppo sul piano cronologico.
È però un fatto che neppure Iv è apparsa convinta dal comizio del Ministro della Giustizia, accusato di ricostruzione parziale. Certo, i renziani si sono poi affrettati a smentire che tale giudizio sia necessariamente prodromico a un voto favorevole alla mozione del centrodestra. Ma, proprio come i virgiliani Danai, pure il fu Rottamatore è temibile anche quando porta doni.
Come abbiamo già argomentato, la mozione di sfiducia a Bonafede rischia di essere la classica montagna che partorisce un topolino. Ha monopolizzato il dibattito politico, ha preconizzato sfracelli ma, al dunque, è assai poco probabile che possa passare.
A livello puramente numerico, l’appoggio di Matteo Renzi potrebbe far pendere l’ago della bilancia in direzione dell’opposizione. Il che aprirebbe, com’è evidente, un enorme problema politico che difficilmente si limiterebbe alla sfiducia a un singolo componente dell’esecutivo.
Per questo, nei giorni scorsi, il segretario dem Nicola Zingaretti aveva avvisato il suo predecessore: se cade il Conte-bis, si va al voto anticipato. Che all’altro Matteo attualmente non conviene, stante la persistenza delle percentuali anemiche di cui è accreditato nei sondaggi.
Ma che tutti gli occhi siano puntati sulla micro-formazione degli ex Pd lo dimostra anche un altro fatto, solo apparentemente slegato. Una dichiarazione del fu Avvocato del popolo sul tema della regolarizzazione di migliaia di migranti. Un argomento che da sempre costituisce un autentico casus belli per Movimento Cinque Stelle e Italia Viva.
«Regolarizzare per un periodo determinato immigrati» che «già lavorano sul nostro territorio significa spuntare le armi al caporalato». Così il Presidente del Consiglio, sposando in pieno la tesi del Ministro renziano delle Politiche agricole Teresa Bellanova.
Un tempismo eccezionale, se si pensa alla sfilza di precedenti annunci e contro-annunci. Dapprima il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri che sostiene che «abbiamo sciolto tutti i nodi politici e di assetto».
Poi i grillini che lo sconfessano, affermando che «non è stato ancora raggiunto l’accordo». Una linea, pare, imposta dall’ex capo politico Luigi Di Maio.
Una dinamica interessante, perché pare ci fosse (ci sia?) una trattativa sotterranea tra i due alleati-rivali. I quali potrebbero accordarsi per barattare la salvezza di Bonafede con il provvedimento caro a Iv.
In questa trama, l’intervento del Ministro del Esteri, che poteva far saltare il banco, è stato più che controbilanciato dalla nota di Palazzo Chigi. Che quantomeno potrebbe trasformare la pistola carica del senatore fiorentino nell’ennesimo penultimatum, rinviando quindi a data da destinarsi il regolamento dei conti, anzi dei Conte. Potrebbe, of course. Bacio della morte renziano permettendo.
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