La cittadina ciociara ha dato un’ impronta indelebile alla sensibilità artistica del grande attore, sceneggiatore e regista, contribuendo a forgiare quella sensibilità che ritroviamo nei film del dopoguerra. La vita di Vittorio De Sica s’è svolta sempre tra Napoli e Roma, tra la prima famiglia e la seconda, tra l’Italia e la Francia. La sua opera però resta un punto fermo di grande speranza.
Il 7 luglio 1901 a Sora nasceva Vittorio De Sica, uno dei più grandi registi del neorealismo, ma anche attore, sceneggiatore, cantante, uomo di spettacolo che per oltre un trentennio, assieme a Roberto Rossellini e Luchino Visconti, è stato protagonista della scena italiana.
Qual era la Sora degli inizi del secolo e quale quella di oggi? Cosa resta di Sora nella personalità del grande attore? Cercheremo di capire qui quanto i natali di un personaggio famoso possano aver contribuito a rendere, se non famosa, per lo meno interessante la cittadina ciociara. Intanto fa impressione che nel Lazio siano nati e cresciuti così tanti nomi altisonanti del nostro mondo dello spettacolo, a parte quelli nati a Roma.
Oltre a Vittorio De Sica e Anna Tatangelo che sono nati a Sora, hanno origini ciociare anche Nino Manfredi nato a Castro dei Volsci, Ciccio Graziani e Gina Lollobrigida a Subiaco. L’indimenticato Lucio Battisti a Poggio Bustone, Ilaria Spada e Tiziano Ferro a Latina, Manuela Arcuri ad Anagni, Andrea Carnevale a Monte San Biagio, Alessio Cerci a Velletri, Bruno Conti a Nettuno.
E ancora, Sabrina Ferilli a Fiano Romano, Marcello Mastroianni e il fratello Umberto a Isola Liri, Lea Padovani a Montalto di Castro, Angelo Peruzzi a Blera, Pino Quartullo a Civitavecchia e molti ancora. Senza considerare imperatori, papi, pittori, cardinali, politici.
Il nome completo era Vittorio Domenico Stanislao Gaetano Sorano De Sica e l’ultimo nome, Sorano, si riferisce proprio alla divinità protettrice della città di Sora. Che allora era nella provincia Terra di lavoro, poi passata a Frosinone nel 1927.
A detta del regista, la sua famiglia a Sora “viveva una tragica e aristocratica povertà”. Il padre, cui ha dedicato il film Umberto D. era un impiegato dell’agenzia locale della Banca d’Italia, cagliaritano di nascita ma di origini campane, esattamente di Giffoni, Salerno.
La madre Teresa Manfredi era una casalinga napoletana. Da qui la napoletanità di Vittorio, la cui vita si è svolta sempre in bilico tra Napoli e Roma e le case da gioco. Vittorio ha sempre avuto l’immagine di un nobile napoletano, quella élite colta e raffinata che sapeva sedurre il mondo, tipica degli sciupafemmine, quale lui stesso in parte è stato.
La sua capacità di immedesimarsi credibilmente in un ruolo che pure non gli apparteneva per censo, natali e storia, è stata certamente una delle chiavi del suo successo. Rendendo onore alla fama nazionale delle balie locali, egli stesso venne allattato da una balia ciociara, tale Pasqua Carnevale.
Trascorse i primi anni tra i vicoli della Cittadella, il cuore medievale di Sora. All’epoca, parliamo degli inizi del secolo, i bambini scorrazzavano per le strade spesso non asfaltate del borgo, perché non c’erano pericoli stradali come oggi. Resta il fatto che per la sua famiglia, molto napoletana e itinerante, sarebbe dovuto nascere a Reggio Calabria, se non fosse intervenuto il trasferimento paterno alla sede della Banca d’Italia di Sora.
Già a 5 anni Vittorio segue la famiglia nel trasferimento a Napoli, in vicolo Martiri di Otranto. Ma nel 1910 Umberto cambia impiego alle dipendenze dell’Ina e la famiglia si trasferisce a Firenze. Nel frattempo si è allargata a 4 figli, compreso Vittorio, e nel 1915 tutti in blocco si spostano a Roma, dove nel 1918 debutta ne Il Processo (o l’affare) Clémenceau, di Edoardo Bencivenga, con Francesca Bertini e Gustavo Serena. Grandi ritorni non se ne contano molti, se non nel 1948, quando accompagnò Maria Mercader, in attesa del primo figlio della coppia, a mostrarle la casa natale di Via Cittadella, presentarle la balia Pasquetta come in una specie di bagno propiziatorio per il nascituro.
Il ritorno tra i vicoli dell’ infanzia era come passare a salutare chi lo aveva nutrito in silenzio. In un’epoca ormai lontana. Ritrovava in quei vicoli l’origine del suo essere così attento ai temi della vita, del riso o del dramma che il dopoguerra ha portato nell’Italia quando doveva ricostruirsi. Non importa se i suoi ritorni in quei vicoli avessero breve durata, quanto invece l’avervi trascorso l’infanzia, ovvero gli anni della memoria sensitiva e indelebile.
Ci furono poi altri ritorni. Veniva a trovare la famiglia Carnevale alla quale era legato come figlio di latte. Il figlio della signora Pasquetta, fratello di latte, tra l’altro, era stato chiamato Vittorio. Le cosiddette balie erano e sono state sempre una risorsa della terra ciociara, fino a quando non hanno inventato il latte artificiale, al punto tale da essere definite l’oro bianco della Ciociaria.
Dopo la scomparsa di Vittorio sono tornati a Sora, a ricordarlo, i figli. Nel 1984, nel decennale della morte, c’è stato Christian con la madre Maria Mercader, poi un paio di volte la figlia Emy. Invece l’altro figlio Manuel, compositore di colonne sonore, più di una volta è andato a Sora, oltretutto nel 1999 per presentare una biografia su Vittorio, scritta da un compaesano.
Il 10 aprile del ’37 Vittorio aveva sposato l’attrice Giuditta Rissone dalla quale ebbe la prima figlia Emilia (detta Emy), ma nel 1942 conobbe sul set del film Un garibaldino in convento l’attrice catalana Maria Mercader, con la quale iniziò una convivenza. All’epoca il divorzio non c’era e il concubinaggio era avversato ed allora De Sica ottenne un divorzio nel ’54 in Messico, per poter sposare nel ’59 la Mercader sempre in Messico.
Ma il matrimonio era ritenuto nullo per la legge italiana. Così de Sica dovette prendere la cittadinanza francese nel 1968 e sposare a Parigi la Mercader, quando la coppia già aveva avuto due figli: Manuel nel ‘49 e Christian nel ’51. In seguito due nipoti Andrea (1981) figlio di Manuel e Brando (1983) figlio di Christian sono diventati rispettivamente sceneggiatore e regista.
Seppur divorziato, Vittorio De Sica non volle rinunciare alla prima famiglia. Dette vita così a un doppio ménage, con doppi pranzi nelle feste corse tragicomiche per stare con entrambe le famiglie. Alla Vigilia di Natale e all’ultimo dell’anno sembra che regolasse l’orologio avanti di due ore in casa della Mercader, per poter fare il brindisi di mezzanotte con tutte e due le famiglie. La prima moglie accettò di mantenere una sorta di matrimonio apparente, pur di non togliere alla figlia la figura paterna. A questi aspetti della sua vita è in parte ispirato il film L’immorale diretto da Pietro Germi nel 1967 e interpretato da Ugo Tognazzi.
Nei film di grande successo Pane, amore e fantasia, diretto da Luigi Comencini uscito nel 1953, la storia è ambientata in un paese del sud che poteva essere anche Sora, nella dura realtà di provincia del dopoguerra. Protagonisti erano Gina Lollobrigida con Vittorio De Sica, che a sua volta aveva soffiato il posto all’altro mostro sacro Gino Cervi.
La recitazione di De Sica, che interpretava un maresciallo dei carabinieri innamorato della ragazza di paese, fu così realistica da far appassionare tutto il pubblico a quella vicenda cosi intrisa di buoni sentimenti e di difficoltà della realtà italiana di allora.
Pane, amore e… del 1955 diretto da Dino Risi è il terzo della serie iniziata col film citato, cui era seguito Pane, amore e gelosia e infine si chiuse con Pane, amore e Andalusia. È anche il primo girato a colori con Sophia Loren al posto della Lollobrigida, dando adito a una rivalità costruita tra le due attrici. La scena in cui De Sica e la Loren ballano un mambo è diventata simbolo della commedia italiana anni Cinquanta, e ha contribuito a rendere Mambo italiano una canzone famosa in tutto il mondo, che ancora viene citata e utilizzata.
De Sica si era formato con il cinema muto degli anni Venti, dove s’impose sulla scena come attore grazie alla commedia Gli uomini, che mascalzoni… del 1932, ricordata anche per la canzone Parlami d’amore Mariù, da lui stesso portata al successo.
Negli anni quaranta infine decise di mettersi dietro la cinepresa e nacquero i suoi capolavori più noti, come Sciuscià e Ladri di biciclette, premiati entrambi con l’Oscar come miglior film straniero. Nel 1960 fece entrare Sophia Loren nel mito dei grandi di Hollywood con La Ciociara, che oltre all’Oscar come migliore attrice protagonista portò a casa i riconoscimenti più prestigiosi, dalla Palma d’oro a Cannes al David di Donatello.
La statuetta finì di nuovo tra le sue mani nel 1965 con Ieri, oggi, domani , con la coppia Mastroianni-Loren e cinque anni dopo con Il giardino dei Finzi-Contini, tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani.
De Sica sosteneva che nu cafone ‘e fora, come lui si definiva, può amare Napoli più di un napoletano e più volte pensò di prendere casa a Posillipo. Amava trascorrere lunghi periodi a Ischia specie per le vacanze.
Più volte sostenne che se non aveva preso casa a era per via che non c’era un casinò. La sua grande passione per il gioco era universalmente nota, per la quale si trovò a volte a perdere somme anche ingenti e che, probabilmente, spiega la sua partecipazione a qualche film non all’altezza.
Nell’immediato dopoguerra fu assiduo frequentatore di roulette nel Casinò Municipale del Castello di Rivoli. Quella per il gioco fu una passione che riportò, con grande autoironia, in diversi suoi personaggi cinematografici, come in Il Conte Max, dove recita con Sordi e Un italiano in America, diretto da Alberto Sordi.
Da qui si vede il suo grande amore per la lingua e la tradizione musicale e culturale partenopea. Tanto da restarne influenzato come nel film L’oro di Napoli e Matrimonio all’italiana, tratto dalla famosa commedia Filumena Marturano di Eduardo de Filippo, sempre con la coppia Loren-Mastroianni.
Si spense in Francia (Neuilly-sur-Seine) il 13 novembre 1974 e le spoglie vennero tumulate nel cimitero monumentale del Verano a Roma.
Pur rimanendo centri storici di pregevole bellezza, Sora come anche Isola del Liri, hanno, tuttavia, conosciuto un progressivo svuotamento del numero di abitanti e un aumento di metri cubi di edificato. La periferia è diventata il centro cittadino e il vecchio borgo un’appendice storica.
Tutto ruota ormai su Roma, cui è collegata dall’autostrada per Napoli e che dista 94 km e dalla ferrovia. Il polo attrattivo della grande città ha prima contribuito a svuotare di abitanti e di identità i borghi antichi, riducendoli a meri dormitori, e poi ha decretarne un lento decadimento economico e produttivo.
Questo s’è verificato soprattutto con il proliferare dell’abusivismo edilizio e l’assenza di un piano regolatore da far rispettare, contribuendo al disastro della devastazione di molti siti urbani e sub urbani.
L’Abbazia di San Domenico, mirabile esempio di Architettura Sacra dell’XI secolo, non ha una piazza, è esposta alle vibrazioni e all’inquinamento del traffico leggero e pesante. La memoria di Cicerone, non è minimamente valorizzata, quando potrebbe essere volano economico ed un vero e proprio brand di territorio. La stessa villa natale del grande oratore romano è degradata e tutto il territorio circostante non ha più nulla di affascinante e lussureggiante, come Cicerone raccontava.
Tutto intorno i segni dell’abbandono e del degrado ambientale e paesaggistico, una serie di Non Luoghi come si definiscono oggi, ovvero di spazi senza più una vita e una prospettiva di rilancio.
Testimoni di un passato che prometteva quello che poi non è accaduto. La cartiera Mancini, ponte Marmone, le cartiere Lefebvre, l’Opificio Ciccodicola alle Remorici, il pastificio San Domenico, le sponde del Liri e del Fibreno, il quartiere operaio e le ville dei dirigenti ad Isola del Liri superiore, l’Isola di Carnello, l’antico tracciato romano ora Canale Mancini fino al simbolo dell’incuria e del degrado che è l’ex Tomassi, oltretutto eretta su un tempio risalente al I secolo a.C. ed ora nota piazza di spaccio e degrado.
Che film ispirerebbero a un redivivo De Sica questi non luoghi? Per lo meno nelle pellicole del dopoguerra si coglieva un afflato di speranza, un desiderio di riscatto che ora sembra perso. Chi può se ne va. Chi resta è affranto e come vinto dall’onda nera che tutto ingloba.
Quale via d’uscita si ipotizza per i borghi della Ciociaria e del Lazio in generale? L’unica speranza è la fuga dai paesini ma anche dalle città. L’estero è diventata la meta dei neolaureati e di chi ha un mestiere solido in mano. La dimensione umana ancora qui si potrebbe ricostruire, ma per questo serve un a progettualità, un sostegno e un indirizzo pubblico. Serve una spinta ideale e anche molto coraggio.
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