Tra gran stupore e infinite risate sul web, la “sovranità alimentare”, questa sconosciuta agli italiani e inaspettatamente aggiunta al vecchio nome del Ministero dell’Agricoltura, ha subito scatenato timori sul ritorno ai sistemi autarchici di un tempo che, con malcelata ironia, si sono manifestati con battute che vanno dalla “fine del Sushi” alla “chiusura definitiva di McDonald”, se non addirittura alla “sorte dell’ananas”. Quest’ultimo, oggetto di discussione tra il presidente Meloni (mai nome più adatto) e l’irriducibile “senatora” Boldrini, solo per citarne tre.
Poi, altrettanto inaspettatamente, da lì a poco si scopre che la dicitura del caso con questo poco amato sound è stata inventata proprio dai cugini francesi, ovvero che il copyright farebbe capo al ministro “agricolo”, Marc Fesneau del Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire nel Governo del presidente Macron, (soggetto controllante che però non vuole essere controllato) e che il neo insediato Governo nostrano ha voluto “copiare”, essendo in gioco un Made in Italy che in termini di export varrebbe vale € 60.000,000,00 (sessanta miliardi di euro).
Vale la pena di approfondire.
L’apparentemente inedita definizione è frutto di un movimento internazionale che risale al 1996 denominato Vìa Campesina”, che in lingua spagnola significa è “La via dei contadini”. Via Campesina vanta essere una federazione formata da 182 organizzazioni presenti in 81 paesi, tra i quali l’Agenzia FAO dell’ONU, che nello stesso anno ha lanciato l’allarme povertà per molti paesi del Mondo, promuovendo il diritto dei piccoli coltivatori. E diffondendo il concetto di “sovranità alimentare” come un vero e proprio diritto politico, insomma un vero pilastro del “diritto al cibo” contenuto in forma più o meno esplicita nelle costituzioni di tutti i paesi democratici planetari.
Tra i paesi più attivi, c’è il brasiliano Sem Terra, ove l’iniqua spartizione del reddito causata dalla sbilanciata distribuzione della terra e della ricchezza è notoria, grazie allo storico movimento sociale brasiliano che lotta da sempre contro il latifondo e multinazionali dell’alimentazione.
Grazie all’azione di coordinamento delle organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa, a Via Campesina andrebbe riconosciuta la paternità (o maternità?) del termine “sovranità alimentare”, che si pone come obiettivo la lotta per giungere al risultato dell’agricoltura sostenibile (altro termine fondante i valori del futuro) contro ogni sfruttamento dell’ambiente e dei lavoratori del comparto agroalimentare.
Il consolidamento della definizione compiuta si è poi raggiunta nel 2007 al Forum per la Sovranità Alimentare di Nyélény (Mali), ove è stato precisato che “…la sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, prodotti in maniera sostenibile ed ecologica… che è loro diritto a decidere il proprio sistema alimentare e produttivo…dando priorità alle economie locali e ai mercati locali e nazionali….per promuovere la trasparenza del commercio, che garantisca guadagni adeguati per tutti i popoli, insieme ai diritti dei consumatori di controllare la propria alimentazione e nutrizione…pretende nuove relazioni sociali libere da oppressione e da disuguaglianze, fra uomini e donne, fra popoli, fra gruppi razziali, fra classi sociali e generazioni”, oltre a tutto il resto della solenne dichiarazione che vale la pena di andare a leggere per intero.
Viene quindi da pensare che dietro l’apparente “passo indietro” di storica memoria si renda necessaria una difesa più forte dei prodotti alimentari italiani rispetto al passato. Essendo notoria la “gola” (è il caso di dirlo) che le imprese agroindustriali del pianeta nutrono per le nostre specialità. Ovvero, in questo caso, se la preoccupazione è partita dal governo francese, a maggior ragione deve occuparsene anche il nostro.
Complici i disagi all’agricoltura interna determinati dalla burocrazia di Bruxelles, ai quali giunge oggi il chiaro messaggio secondo cui, dopo il “latte belga alla diossina” e i tagli dei “vitigni pugliesi” a suo tempo “barattati” con vere e proprie indennità di esproprio, si manda a dire senza mezzi termini che le quote UE non possono più legittimare il consumo interno di prodotti di bassa qualità.
Per non parlare del miele, delle arance, dei pomodori, delle olive e comunque di tutto quel che ha subito gli effetti negativi della liberalizzazione del mercato alimentare.
Nel ricordare che i principi del diritto alimentare europeo (Reg. UE 178/2002) si fondano sul principio della “sicurezza alimentare”, che distingue tra “food security” (sicurezza sulla quantità) e “food safety” (sicurezza igienico-sanitaria), va rivendicato che la Dieta Mediterranea da noi inventata è patrimonio dell’Umanit. Quindi preferire la bruschetta con EVO italiano alle patatine fritte rientra nei canoni di una nuova educazione volta a far privilegiare i nostri DOC e DOP, senza dover considerare prioritario trovarsi a dover mangiare grilli fritti e vermi arrostiti, ferma la petizione mondiale per bloccare lo sbarco a tavola del cibo sintetico sottoscritta dalla stessa Presidente Giorgia Meloni all’evento Coldiretti a Milano.
Del resto, al momento, l’esigenza di rafforzare la produzione di materie prime come olio, grano e ortofrutticoli in genere, oltre ai mangimi per gli allevamenti, è resa necessaria dalle conseguenze del conflitto russo-ucraino che ha irrimediabilmente alterato gli equilibri politici faticosamente raggiunti negli ultimi decenni.
Tuttavia, l’importanza dell’aspetto “rurale”, nel “resto del mondo” si manifesta anche mediante l’uso di questo aggettivo nei ministeri agricoli, per esempio, della Polonia e della Gran Bretagna e della Cina. Fermo restando che proprio quest’ultima, con la sua presenza massiccia a livello mondiale, ha determinato forti ribassi dei prezzi del prodotto agricolo interno per imporre il proprio, peraltro non controllato e magari contenente additivi qui vietati, per destinarli alle scatolette che troviamo nei supermercati low cost.
Insomma, si è confusa la restrizione del liberismo alimentare a difesa nel nostro patrimonio alimentare con quella che resta comunque la sana cultura multietnica del cibo, ma con controllo, parsimonia e soprattutto, sicurezza.
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