Antonio Augello è il presidente di Tutela in Azione, un’Associazione No Profit che rappresenta un network di assistenza legale. Opera in Italia e all’Estero e si occupa anche di assistere le vittime di stalking con un metodo molto efficace, finalizzato alla condanna dello stalker. Lo abbiamo intervistato.
Lo stalking è un insieme di comportamenti persecutori che presi singolarmente possono anche non costituire reato volti a controllare e limitare la libertà della persona molestata che il più delle volte sarà costretta a cambiare le proprie abitudini di vita. Il fatto più allarmante è che il 75% dei casi di femminicidio è preceduto da atti di stalking. Ora, poiché in Italia, questo reato esiste solo dal 2009, è evidente quante e quali siano le difficoltà per gli organi di polizia giudiziaria ad individuarlo ed interpretarlo correttamente.
Lo stalker insegue, spia, sorveglia l’abitazione o il posto di lavoro della vittima, oppure le fa recapitare doni non voluti, danneggia beni di sua proprietà, minaccia e diffama in maniera ossessiva e persecutoria. Tutte queste manifestazioni, supportate da una parafilia più o meno manifesta, vengono in molti casi maggiormente e più velocemente esasperate dall’utilizzo diffuso delle droghe.
La maggior parte degli stalker (70%) appartiene alla categoria degli ex partner. La vittima ha quindi maggior difficoltà a parlarne per vergogna. Inoltre, nel caso di figli in comune, ci saranno ulteriori ostacoli per arrivare alla soluzione più logica ed immediata: quella dell’allontanamento dal proprio aguzzino.
Effettivamente, in Criminologia, per convenzione accademica sono stati tracciati diverse tipologie di stalker ciascuna con un proprio grado di rischio. Quelli con un più alto potenziale di rischio, oltre ai casi limite dei profili border line del soggetto delusionale e di fissazione e quello sadico tipico del serial killer, sono purtroppo rappresentati dall’ex partner che nutre odio, risentimento e gelosia aggressiva nei confronti della vittima. Di fatto lo stalker è comunque un potenziale omicida.
In primis fornendo un supporto psicologico e di presenza continua. Nel caso non sia stato fatto, avvertiamo i familiari della vittima, gli amici e colleghi, il datore di lavoro fornendo ad ognuno le modalità di comportamento più indicate da tenere sia nei confronti della vittima che dello stalker (che il più delle volte non avrà riserve nel manifestarsi come tale in pubblico). Dopo aver messo in sicurezza la nostra assistita, la nostra azione sarà fattivamente proiettata per arrivare alla condanna dello stalker, mantenendo il monitoraggio del caso anche durante l’esecuzione della pena (sono ben noti i casi di reiterazione del reato anche una volta scontata la condanna detentiva).
Il consiglio è di non aspettare che queste condotte moleste arrivino alle estreme conseguenze, ma di agire subito, attraverso una denuncia, meglio se proposta con l’ausilio di un professionista competente, il più possibile dettagliata e documentata, anche eventualmente corredata di indagini, che oggi possono essere svolte anche dal difensore prima ancora che si instauri un procedimento penale.
Non dimentichiamo che nella denuncia si potrà chiedere al p.m. di avanzare richiesta di applicazione di una misura cautelare, che ove accolta può dare un po’ di respiro alla malcapitata. Inoltre in considerazione del fatto che spesso tali condotte maturano nell’ambito familiare, o comunque di convivenza, uno strumento efficace, che il Giudice può concedere, potrebbe essere la misura dell’allontanamento dalla casa familiare, ovvero quella del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Dopo l’analisi tecnica di Antonio Augello e le soluzioni applicate da Tutela in Azione, abbiamo chiesto al prof. Antonio Guidi, un parere da neuropsichiatra e da ex ministro della famiglia.
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