Storia di Arsen, dalla malattia in Ucraina alla guarigione a Roma
La storia di Arsen è iniziata nell’ottobre 2022 e si è conclusa da poco. E’ a lieto fine, fatta di solidarietà, amore, fatica, coraggio e tanta bellezza
Vi racconto una storia. E’ avvenuta sotto il cielo di Roma. Perché Roma è anche questo. Un luogo che accoglie, un luogo di rinascita. Una vicenda che è iniziata nell’ottobre 2022 e si è conclusa da poco. Una storia a lieto fine, fatta di solidarietà, amore, fatica, coraggio e tanta bellezza. Non lo faccio per mettermi in evidenza e vestirmi di elogi che non cerco.
Roma solidale accoglie Arsen
Lo faccio solo perché questo racconto possa entrare nel cuore di tutti, far riflettere e alimentare la speranza che questo mondo, martoriato da violenza e dolore, si può cambiare. Bastano piccoli gesti. Basta semplicemente volerlo. Arsen oggi ha ventuno anni. È ucraino. Un anno e mezzo fa avrebbe dovuto andare in guerra, come tutti gli uomini ucraini, per difendere la sua terra, la sua vita. Quella di Oleksandra, sua madre e quella di sua sorella.
Ha un anno meno dei miei figli, che corrono a grandi falcate verso il suo futuro. Ma agli inizi della guerra in Ucraina, Arsen non corre. Non può farlo neanche se volesse. E il futuro per lui ha un colore diverso da quello degli altri ragazzi della sua età. Perché Arsen sta male. Molto male.
Ha i linfonodi gonfi e un malessere generale al quale i medici militari di Leopoli, alla visita militare, danno un nome: linfoma non Hodgkin. Dunque, i nemici da combattere sono due. Uno che invade la sua terra, uno che invade il suo corpo. Una battaglia impari. Per Arsen si apre un nuovo scenario, un futuro dalle tinte fosche, forse più fosche di quelle che avvolgono il fronte dove suo padre già combatte da mesi. Deve curarsi. Ma dove e come.
Mancano i medicinali
“Non hanno neanche la tachipirina”, mi dice Vira al telefono, una cara amica della madre di Arsen cui la donna si rivolge disperata per avere un aiuto. Conosco Vira per altre vie, insieme abbiamo già aiutato una famiglia ucraina in passato. “Aiutami a portarlo in Ematologia”, dice Vira che sa dove lavoro. “In Ucraina c’è la legge marziale e Arsen è nelle liste militari. Serve una lettera di accettazione per cancellarlo dalla lista e farlo partire”
Non ci vuole molto. Il Direttore dell’Istituto di Ematologia, il Prof. Maurizio Martelli, al quale mi rivolgo immediatamente, scrive alla Direzione Sanitaria del Policlinico Umberto I che risponde altrettanto velocemente. Alle persone in fuga dall’Ucraina viene riconosciuta immediatamente la protezione temporanea che dura un anno estensibile a un secondo anno e assicura soggiorno, assistenza sanitaria, accesso agli alloggi, al mercato del lavoro, all’istruzione.
Ci sono dunque tutte le condizioni perché Arsen possa essere curato qui da noi. Così scrivo a sua madre. La mia lettera servirà per il nullaosta da parte della commissione medica militare alla partenza del ragazzo.
Ma gli ostacoli non sono ancora finiti
La mattina in cui la Commissione Militare si riunisce per decidere il destino di Arsen, Leopoli viene bombardata pesantemente. Chi ha potuto, si è rifugiato nei bunker. E nei bunker finiscono anche Arsen e la madre. Niente commissione e decisione rinviata al pomeriggio. L’allarme termina alle 16.
Alle 18:43 arriva la notizia sperata. C’è l’ok. È fatta.
Mi viene da urlare di felicità. Il mio “sì” si schianta contro la parete del salone e forse lo trapassa per salire verso le nuvole grigie che incombono su Roma. Non c’è tempo per gioire. Bisogna organizzare la partenza e anche velocemente. Non è facile ma in qualche modo si farà.
Non vedo l’ora di abbracciarli. Sarà dura, sarà difficile, ma sono assolutamente convinto che Arsen tornerà a sorridere. Ora bisogna trovare una sistemazione per mamma e figlio. Scrivo un post sui social e ricevo una valanga di consigli e offerte di aiuto.
Ovunque trovo braccia tese, disponibilità, partecipazione; dalla famosa Suor Paola, che mi intrattiene con una telefonata divertentissima e gioca con la mia omonimia con la spalla di Bonolis, a Rosa, una generosa amica di mia cognata che apre le porte della sua casa a chi ha bisogno.
Ma le sistemazioni proposte sono molto lontane dall’Ematologia e Arsen dovrà fare avanti e indietro per sottoporsi alle cure necessarie. E’ fondamentale trovare una sistemazione il più vicino possibile al luogo di cura. Brancolo nel buio e la disperazione mi assale.
La residenza Vanessa
Poi, improvvisa, un’idea: la Casa AIL “Residenza Vanessa”,una struttura accanto all’Ematologia costituita da quindici stanze con nomi di fiori, voluta e creata dal Prof. Mandelli con i fondi dell’AIL di Roma (la sezione romana dell’Associazione contro Leucemie, Linfomi e Mieloma) per ospitare gratuitamente pazienti ematologici e familiari non residenti.
Mi chiedo come abbia potuto essere così stupido da non pensarci prima. Ma l’ansia e la fretta, si sa, non sono sinonimo di lucidità. Così contatto la Presidente dell’AIL Roma, la Dr.ssa Maria Luisa Viganò, che in poche ore dà l’ok. Ma non è finita. Bisogna creare un corridoio tra gli ematologi e gli assistenti sociali, cosa apparentemente non facile.
E invece basta pochissimo. Perché tutti rispondono con entusiasmo: dagli amministrativi, agli assistenti sociali, fino ai medici del gruppo dei linfomi dell’Ematologia che producono i documenti necessari e mi danno contestualmente l’appuntamento per la prima visita.
È fatta. Arsen e mamma Oleksandra avranno una “casa”. E Arsen avrà tutte le cure necessarie. Non mi sembra vero.
L’arrivo di Arsen e della mamma
Arrivano un luminoso venerdì di fine ottobre da Leopoli dopo un viaggio estenuante in pullman organizzato in fretta e furia da Vira. Li aspetto in strada fremendo dall’impazienza. Scendono dall’auto con targa polacca che lampeggia i fari mentre corro verso di loro. Oleksandra mi viene incontro per prima e mi abbraccia.
Il suo bacio mi sprigiona una commozione che a stento riesco a trattenere. Nell’istante in cui poggia le labbra sulla mia guancia e mi stringe sento quasi il suono terribile della guerra, le bombe, le grida, il sangue, l’orrore che vedo tutti i giorni nei notiziari, gli addii di famiglie smembrate, le lacrime, le promesse di ritrovarsi, un giorno.
È un peso enorme che annega nell’abbraccio successivo, quello di Arsen. La sua lunga stretta, le parole sussurrate che non capisco, tutto in lui mi parla di riconoscenza, di gratitudine che non ha altro modo di esprimersi se non con una morsa che mi stritola corpo e mente. Non li conosco, eppure si crea subito tre noi un legame che non si scioglierà più.
Ecco Arsen
È alto, magro, pallido, un sorriso che contagia. Ci stacchiamo e ambedue cerchiamo di nascondere gli occhi lucidi. Il tempo di prendere dal portabagagli dell’auto un’enorme valigia marrone su cui i segni del tempo sono piuttosto evidenti e siamo già in cammino per la residenza.
Mentre camminiamo, osservo con attenzione Arsen senza farmi accorgere da lui. Ha grossi rigonfiamenti sul collo, la voce a volte si spegne per lasciar posto a lunghi colpi di tosse. Niente febbre, il passo è veloce, sicuro, lo sguardo sempre sorridente, fiero, come tutto il suo popolo, nonostante malattia e stanchezza.
Prendiamo possesso dell’alloggio, dove già sono ospiti altri due ucraini, mamma e figlio. Qualche scambio di parola tra i quattro, leggo emozione nelle parole che non comprendo. Poi usciamo di nuovo per un giro. Mostro l’Istituto di Ematologia, la farmacia, la fermata della Metro Policlinico, il supermercato.
Loro si guardano intorno e dicono solo una frase che Arsen mi traduce in inglese: “che bello….che bello” Un albero con le foglie verdi, un semaforo, il marciapiede, il cielo azzurro.
“Che bello….” Mi si stringe il cuore
Entriamo al supermercato dove ogni giorno mi compro qualcosa da mangiare per pranzo e dove ormai sono tutti amici e li presento al personale perché le prossime volte, quando verranno da soli, li aiutino nella spesa. Tutti accorrono. Sorrisi. Volti commossi.
E pure loro si commuovono e non sanno cosa dire, ma si vede che sono felici. Compriamo qualcosa e torniamo indietro. Sono stanchi. Li accompagno di nuovo alla Residenza, la nuova casa.
Hanno pochi giorni per ambientarsi, poi le cure cambieranno per un pó la vita di tutti e due. Li lascio tra ringraziamenti e sorrisi. La porta della loro stanza si chiude dietro le mie spalle.
Esco. Non ho mai visto un cielo così azzurro. Ora posso lasciarmi andare. Troppe emozioni, troppe….
I primi giorni con lui
I primi giorni io e Arsen ci sentiamo spessissimo, a voce o tramite cellulare. Mi fa domande, mi racconta delle sue camminate alla scoperta del centro di Roma.
Quando ci vediamo, mi fa vedere le foto sul cellulare e prova a pronunciare in maniera corretta i nomi dei luoghi che lo colpiscono: piazza di Spagna, il Pantheon, Fontana di Trevi, San Pietro, l’Altare della Patria. Talvolta mi manda su whatsapp le immagini del quaderno su cui scarabocchia parole italiane che trova su un corso online di youtube. E’ un ragazzo sveglio, non si perde d’animo, imparerà presto.
Poi cominciano le visite. La prima è quella cardiologica, altre ne seguiranno a raffica. Ma questa la ricordo con particolare commozione. Lui è disteso sul lettino, di fianco. E’ così alto che deve piegare le ginocchia verso il petto perché polpacci e piedi non sporgano al di là del bordo.
Il cardiologo fissa il monitor e muove velocemente la mano destra sui tasti dell’ecocardiografo mentre la sinistra stringe la sonda e si muove impercettibilmente. Osservo con attenzione i suoi movimenti e le immagini che prendono forma sullo schermo dello strumento, il cuore, i vasi sanguigni, il flusso del sangue all’interno di atri e ventricoli.
Poi il mio sguardo va su di lui. Sto cominciando ad affezionarmi. E’ lì, davanti a me, lo sguardo fisso, il braccio sinistro piegato sotto la testa, il destro abbandonato lungo il corpo. Qualcuno, non ricordo chi, mi chiede ad un certo punto se io sia il padre.
Una domanda che mi coglie alla sprovvista. Scuoto la testa, le corde vocali non seguono gli impulsi del cervello. Che stupido che sono…
Improvvisamente la visita termina. Lui infila la giacca della tuta e mi viene vicino. Non c’è traccia della fierezza cui sono abituato; ora c’è altro. Sembra perso, vorrei stringergli la mano e tenerla forte nella mia, ma mi limito a guardarlo e strizzargli un occhio.
E’ lei il padre?
Abbozza un sorriso e mi sfiora con il braccio. Lo accompagno in sala operatoria a mettere il PIC, l’accesso venoso che faciliterà le infusioni di farmaci. Ormai lo conoscono, in Ematologia.
Quando arriviamo escono tutti a rassicurarci. La porta si chiude e io rimango là, in piedi, ad aspettare. Sono agitato, avrei bisogno di uscire a prendere una boccata d’aria.
Invece corro dalla mamma a dirle che tutto sta andando bene. Lei è seduta in sala d’attesa al piano superiore. E’ sola. Anche lei è una bella donna, giovane, discreta, silenziosa.
Quando mi vede arrivare le si illuminano gli occhi. La rassicuro con parole semplici e molti gesti. Poi torno al piano inferiore, quasi correndo e mi piazzo davanti alla porta del blocco operatorio.
“Lei è il padre?”
Ripenso a questa domanda che inaspettatamente mi commuove. Il padre è in guerra chissà dove, la sorella a Leopoli, lui e la madre a Roma, in un ospedale. E io sono qua, davanti a una porta chiusa, con un’ansia tremenda da gestire.
“No, non sono suo padre”
Ma quanto è difficile negare un sentimento che sento ormai palpitare forte nel mio cuore. Poi me lo vedo comparire davanti. Il volto sorridente, il braccio destro con il PIC nuovo di zecca. Me lo mostra come se si trattasse di un orologio prezioso.
“Everything is ok”, mi dice
L’infermiera mi guarda con aria interrogativa. “No, è che sviene sempre, anche per un semplice prelievo….”, farfuglio cercando di giustificare la debolezza del ragazzo. “E’ stato bravissimo. Non è svenuto. Gli abbiamo spiegato tutto. Ci vediamo ogni giovedì per la medicazione. Può venire anche da solo, non c’è alcun problema” “Magari lo accompagno io ancora qualche volta, in seguito verrà da solo. Vediamo…”
Lei sorride e annuisce.
Io prendo Arsen sotto braccio e insieme saliamo al piano superiore. Adesso è il momento della chemioterapia in sala terapia. Stavolta però lo accompagna la sua ematologa. Ci vorranno tre ore e mezza, non posso restare. Lo lascio a malincuore in altre mani. Lui mi saluta ed io corro via.
Poi arrivano i suoi messaggi, uno ogni tanto, a placare la mia agitazione. Arriva anche quello del Direttore dell’Ematologia, inaspettato.
“Quello che stai facendo ti fa onore”.
Ma lui non è da meno e anche se non lo dice, so che è divorato dalla stessa mia ansia… E il tempo passa. Ma i pensieri restano e giocano nella mia testa come bambini felici. E quella domanda che mi ronza in testa senza sosta: “Lei è il padre?” E poi i giorni passano e anche i mesi.
La battaglia di Arsen
Arsen combatte la sua battaglia, io lo controllo a vista. Il suo fisico sopporta egregiamente i pesanti cicli di chemioterapia. Ogni tanto ci vediamo, facciamo lunghe passeggiate, andiamo dal barbiere insieme, chiacchieriamo e ci mandiamo messaggi via whatsapp. Io gli dico che dovrebbe stare con i ragazzi della sua età e non con un “vecchietto” come me.
Lui fa finta di arrabbiarsi e mi dice che non sono affatto vecchio. Ridiamo e sembriamo davvero padre e figlio. Mi chiedo come sarà, quando tornerà a casa, la sua casa…
Passano i mesi, le cure fanno effetto. Cicli di chemioterapie, farmaci, analisi continue di ogni genere.
Arsen cambia lentamente aspetto. I capelli riprendono a crescere, torna l’appetito, il sorriso acquista nel tempo una luminosità pari al cielo azzurro di Roma. Lo vedo rinascere e insieme a lui rinasco anch’io.
Nel giugno 2023 la prima delle due parentesi a casa, in Ucraina. Il giorno prima della partenza gli dono un orologio che rappresenta il tempo passato insieme e il tempo che scandirà la sua nuova vita nella quale spero ci possa sempre essere il ricordo di me.
Mi si spezza il cuore quando lo saluto, ma sono anche felice per lui. Al ritorno, si presenta a sua volta con un dono per me: un pezzo di legno vecchio di 600 anni salvato dalla distruzione di una antica chiesa ucraina. L’immagine di San Luca dipinta da un sapiente artista ucraino alla maniera bizantina.
Il volto di San Luca
Non ho mai ricevuto nulla di così prezioso, nulla di così simbolico. Mi mancano le parole e trabocco di gratitudine e di affetto. Torno a casa e appendo il legno antico con l’immagine del Santo sul muro dietro la scrivania dove ora sto scrivendo e di nuovo torna quella frase che mi ronza nella testa ancora adesso, mentre prende forma questa storia che vi sto raccontando e non dimenticherò mai.
“Lei è il padre?”
Infine, arriva il giorno dell’addio, quello vero. Ma non è un addio. Lo sappiamo entrambi.
Continuiamo a scriverci, come facevamo quando combattevamo la sua, la nostra battaglia contro un male che abbiamo vinto insieme. Ci raccontiamo i nostri giorni, mi manda le foto della sua nuova vita: lui che rincorre il nipotino, lui e la sua famiglia intorno a una tavola imbandita la notte di Natale, lui in snowboard sulla neve delle sue montagne.
Arsen è arrivato un giorno di fine ottobre 2022. Lo abbiamo strappato a una guerra assurda come sono assurde tutte le guerre. Era pallido, stanco, malato. Non ero sicuro che lo avremmo tirato fuori da una malattia terribile. Ma insieme abbiamo combattuto una lunga battaglia e abbiamo vinto.
È stato coraggioso, forte, ha affrontato ogni step della cura col sorriso e la determinazione. Non l’ho sentito lamentarsi una sola volta, se non quando il desiderio di una zuppa ucraina diventava quasi ingestibile.
Non tornerà più. Perché Arsen è guarito
Sarò io ad andare da lui, un giorno. Quando la guerra sarà finita, quando potremmo abbracciarci senza sentire il suono delle sirene e le esplosioni delle bombe. E vederlo sulla neve, sulle sue montagne, felice, sorridente con la sua ragazza accanto, è per me una delle felicità più grandi della mia vita.
Auguri di ogni bene, ragazzo mio! Ora, però, è tempo di ringraziamenti.
E senza scrivere una noiosa e lunga fila di nomi incolonnati, voglio ringraziare di cuore tutti coloro che con piccoli gesti d’amore hanno costruito la strada che porterà un ragazzo di neanche vent’anni a poter guardare di nuovo al futuro, quello che la guerra strappa ai giovani figli di un’umanità che di umano non ha quasi più nulla.
A pensarci bene, non abbiamo fatto un miracolo. Abbiamo semplicemente dimostrato (ahimè, c’è ancora bisogno di farlo) che la solidarietà è la cosa più bella del mondo.
La solidarietà è energia, forza, vita. È la solidarietà che può cambiare il mondo. E Dio solo sa quanto questo mondo ha bisogno di essere cambiato…
Grazie, grazie a tutti di cuore.