Spettacoli

Teatro Prati di Roma va in scena “Lo sbaglio di essere vivo”

“Lo sbaglio di essere vivo” al Teatro Prati di Roma, recensione.

Dal 5 febbraio al 20 marzo 2016 va in scena al teatro Prati di Roma ‘Lo sbaglio di essere vivo’, dramma comico in tre atti scritto settant’anni or sono da Aldo De Benedetti, commediografo di un genere di teatro crepuscolare nonché sceneggiatore di pellicole del periodo dei telefoni bianchi. L’adattamento dell’opera e la regia sono curate da Fabio Gravina, ideatore e direttore artistico di questo elegante salotto romano che si affaccia su uno dei quartieri storici del primo municipio capitolino.

“Lo sbaglio di essere vivo” segue ‘Due dozzine di rose scarlatte’ del medesimo autore qui rappresentata in inizio di stagione, e narra la vicenda paradossale di Adriano Lari, un oscuro travet che, a seguito di una congestione, viene dichiarato morto. Destatosi prima del funerale, fa seppellire la sua bara vuota e decide di sfruttare al meglio la situazione per intascare il premio assicurativo. Vinte le resistenze della moglie Maria, riluttante e trasudante onestà, decidono insieme di rifarsi una nuova vita lontano dalla città e mentre sostano in una località di villeggiatura dal nome deprimente, lei incontra per caso Guglielmi, innamorato della donna sin dall’infanzia ed ex principale di Adriano che nella circostanza si finge cognato della inconsolabile consorte.

Equivoci e bugie fanno da corollario alla vicenda che lievita nei toni e nell’intensità espressiva. Nel frattempo i soldi finiscono e le difficoltà di tenere in piedi un’impalcatura altamente rischiosa  espongono impietosamente i due ad un confronto inesorabile, crudo e drammatico che culminerà in un epilogo sorprendente. Le incomprensioni taciute per anni e che una vita in comune appena dignitosa, fatta di rinunce e desideri repressi, aveva stemperato, mettono a nudo le insoddisfazioni di Maria e la presunzione di Adriano. Lo sbaglio di sfidare la morte per ingannare la vita si compie e l’artefice non avrà scampo. Sarà lui, novello Icaro, a scontare a caro prezzo la sconfitta di un’ esistenza mediocre che il suo proposito scellerato aveva tentato di cancellare in un delirio di resurrezione.

L’inatteso finto suicidio scioglierà l’ultimo nodo. La rinuncia al bene più prezioso lo priverà del residuo orgoglio e della voglia di lottare. Maria sarà liberata dal giogo del possesso e brillerà finalmente di luce propria. Il tema pirandelliano della finta morte è evidente financo nel nome del protagonista; Adriano Meis infatti era quello assunto da Mattia Pascal per la sua nuova identità. Alcune considerazioni sulla trama. Concepita sul finire del ventennio, a conclusione di un’epoca di cui lo stesso De Benedetti aveva subito le epurazioni e la follia delle leggi razziali, risente già di un’atmosfera rinnovata, impensabile solo pochi anni prima.

La commedia marca incongruenze evidenti come la radicale metamorfosi sentimentale e troppo repentina per non apparire forzata e in parte immotivata di una moglie apparsa nonostante tutto fedele e innamorata e che compie infine un atto temerario di opportunismo più che di autodeterminazione. Anche la resa incondizionata di Adriano nel cedere all’ arrembante e protervo assedio condotto da Guglielmi all’enigmatica moglie stride con l’indole fiera e battagliera che aveva messo in campo con indomito temperamento e singolare tenacia. Si devono peraltro riconoscere all’autore delle intuizioni che fanno saltare gli equilibri da antico regime e vanno controcorrente rispetto ad una società clericale e bacchettona. Il ruolo della donna che all’interno della coppia perde la connotazione da angelo recluso del focolare, si riappropria di fantasie e sogni e può dichiarare frequentazioni compromettenti ancorché trascorse.

L’integrità della coppia borghese viene rovesciata e insidiata da furbizie ammantate di disonestà e a comporla sono una donna frustrata e in crisi e un uomo accecato da gelosia immotivata che dopo aver provato l’ebbrezza dell’immortalità e dell’ambizione, è tramortito da un nemico insospettato e soggiogato poi dall’accidia e dalla rassegnazione. Solo alla fine comprende che il destino non può essere addomesticato, tantomeno quello altrui, ma è una constatazione amara ed obbligata che, nel distacco doloroso, celebra una raggiunta, inutile, solitaria indipendenza.

La tipizzazione dei personaggi è quella cara al commediografo romano che all’interno di una struttura collaudata dove il paradosso, la trovata e il gioco delle parti e degli equivoci sostengono l’ordito, tratteggia caricature surreali e assolutamente calzanti, intese a rendere ancor più tragicomica l’intera vicenda. Accanto ad Adriano e Maria Lari abbiamo quindi il baffuto signor Mantovani, collega d’ufficio del defunto, goffo e ridondante alle prese con una nenia funebre amplificata dalla calata piemontese; Pompeo Pomponi, l’altrettanto ambiguo e subdolo personaggio direttore dell’omonima agenzia di Pompe funebri che convincerà Adriano ormai logorato dagli eventi a ricominciare in un cimitero una non-vita desolante; e poi la pedante vicina di casa e la spettrale cameriera Rosina che riesce a storpiare un lessico tanto elementare con disarmante supponenza; l‘esuberante Paola, amica impicciona, floreale e leggiadra, pronta a risollevare l’umore di Maria nonostante i veti di Adriano.

Infine Cesare Guglielmi, l’innamorato stralunato, propositivo e brillante nel suo ammiccare toscano, sempre tenuto a bada dall’amata ma che alla fine ottiene l’agognata ricompensa. Gli interpreti. Fabio Gravina è un raffinato, inappuntabile Adriano Lari, asseconda il complesso personaggio da par suo nella parabola discendente, in ogni sfumatura, tra ansie e preoccupazioni, con mimica facciale penetrante e puntuale gestualità, fino alla disgregazione, al sacrificio e all’esproprio di tutto. Paola Riolo è una superba, ieratica Maria Lari, attrice dotata di espressività e forza drammatica sorprendente che si disvela in un crescendo emozionale di sequenze ad alta tensione. Matteo Micheli è il logorroico, spassoso e azzeccatissimo signor Guglielmi, spasimante senza freni di ’Mariolina’, direttore della ‘Siderurgica’, permeato di una prorompente carica di simpatia. Arianna Ninchi è la vivace Paola, irradia naturalmente energia, è disinvolta e sempre a suo agio, come si conviene alla discendente di cotanta stirpe.

Tito Manganelli è un caratterista coi fiocchi: interpreta con grande efficacia ed appropriata esagerazione il doppio ruolo di Mantovani e Pomponi. Mara Liuzzi è la assidua vicina ma anche la cameriera che strapazza la lingua italiana con supponenza. Normale amministrazione per un’attrice versatile, presenza abituale del Prati. Le scene sono di Francesco De Summa, i costumi di Paola Riolo, le musiche originali di Mariano Perrella.Il Prati da oltre tre lustri è scrigno prezioso che custodisce una tradizione permeata di qualità e buon gusto in cui si perpetua l’arte dei repertori classico e napoletano. Preservare il teatro da contaminazioni improprie e confusioni commerciali, riassegnandogli il ruolo di faro culturale che, con l’avvento di nuovi idoli e improvvisati soloni, sembra aver smarrito.

E’ l’intento di uno degli epigoni del grande teatro di prosa che non si rassegna alla mediocrità delle proposte in circolazione e rinnova la scommessa. Il risultato è un’ottima cuvée proveniente dalla ricerca e dall’unione di eccellenti cru oltreché dall’impiego di risorse autoctone selezionate. E tutto questo senza sovvenzioni né lamentose aspettative. Un atteggiamento coerente di amore esclusivo verso una professione affrontata con onestà intellettuale prima che professionale, una solitudine artistica altera che è quasi secessione ponderata mai rinnegata, condivisa con una Compagnia stabile allevata con lungimiranza e maestria.

‘Qui si raccontano storie’ è il claim del Prati che illustra i contenuti di una stagione all’insegna dei sentimenti intrisi di quotidiano, delle umane tentazioni, degli inganni, dei tradimenti più evocati che praticati, dei pentimenti solo in parte percorsi. Un cartellone che affonda la lama dell’introspezione negli stati d’animo del genere umano con sagace, amara ironia, tra ‘verismo’ e relativismo, tra la rassegnazione strutturata dal realismo di Verga e le profondità, le angosce, i sensi di colpa che segnano il decadentismo di Pirandello.

Si raccontano storie che spetta al teatro d’autore interpretare e trasfigurare e che promuovono la libera riflessione perché prerogativa del teatro è la propensione non alla assoluzione o allo zelo affettato e bigotto, bensì alla osservazione acuta e alla superiore comprensione delle debolezze e delle passioni che compongono la sfera interiore e complicano i rapporti fra individui, fornendo lo strumento dialettico adeguato, sospendendo ogni giudizio.

Le commedie che Fabio Gravina rappresenta non inseguono le mode e hanno il merito di divertire richiamando prospettive inquietanti di una consueta normalità che quando è messa in discussione o sovvertita può imbrigliare per poi sfuggire di mano. Intravedono il dramma. Satira e parodia, mettendo in luce aspetti insoliti e bizzarri, insinuano dubbi e pensieri, a volte sottendono malinconia e presentimenti. La sua comicità non teme il tempo, è essenziale, fondata sul sottile umorismo, non è mai sguaiata, mai leziosa o superficiale e fine a se stessa, non ama il compiacimento, è di stampo pirandelliano appunto, arguta e consapevole del ‘sentimento del contrario’.

Sebastiano Biancheri

Foto di Adriano Di Benedetto

Redazione

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