Giuseppe R, un 66enne di Tivoli noto come “Peppe lo zoppo“, si trovava in carcere a Rebibbia quando è stato colto da un malore fatale e ha perso la vita, sollevando un’ondata di indignazione e richieste di giustizia da parte della sua famiglia. Giuseppe, soffriva infatti di gravi patologie e aveva una gamba amputata, elementi che, secondo la famiglia, avrebbero dovuto garantirgli i domiciliari.
Giuseppe era stato arrestato il 12 luglio dopo aver aggredito la sua ex fidanzata e il suo nuovo compagno. Le sue condizioni di salute erano già compromesse: oltre alla gamba amputata, soffriva di cirrosi epatica e necessitava di cure mediche costanti. Per queste ragioni, la famiglia aveva richiesto che la misura cautelare fosse sostituita con gli arresti domiciliari, citando “incompatibilità con il regime carcerario“.
Tuttavia, la richiesta è stata respinta ben tre volte dal tribunale di Tivoli, che ha disposto una relazione da parte della Direzione sanitaria del carcere per valutare la situazione clinica di Giuseppe. La relazione, però, è arrivata solo dopo solleciti da parte del giudice, mentre le condizioni del detenuto continuavano a deteriorarsi.
Il 4 settembre, una prima perizia medica ha confermato le gravi patologie di Giuseppe, ma il tribunale ha comunque ritenuto che le cure fornite in carcere fossero “congrue e idonee“. Questo giudizio è stato ribadito il 16 settembre, quando la richiesta di domiciliari è stata nuovamente respinta.
La situazione è risultata allarmante: il personale del carcere aveva segnalato le difficoltà dell’uomo e la necessità di un monitoraggio costante delle sue condizioni, ma le risposte da parte delle autorità sembravano tardive e insufficienti.
25 giorni dopo il rigetto della richiesta di domiciliari, Giuseppe è stato trovato cianotico e privo di coscienza nella sua cella. Nonostante i tentativi di rianimazione, non c’è stato nulla da fare. La sua morte ha colpito profondamente la famiglia e il legale Pietro Nicotera, che ha dichiarato di voler fare piena luce su quanto accaduto, evidenziando come le condizioni cliniche di Ruggieri siano state trattate con superficialità.
“Il mio assistito era stato arrestato per un reato grave, ma le sue condizioni cliniche erano serie e compromesse“, ha sottolineato l’avvocato Nicotera, lamentando la mancanza di attenzione e di adeguate risposte alle richieste della famiglia.
La famiglia Ruggieri ha avviato una denuncia per chiarire le circostanze della morte del detenuto e per chiedere giustizia per quanto accaduto. Il caso di Giuseppe Ruggieri non è solo una questione personale, ma solleva interrogativi più ampi sulle condizioni di detenzione e sul trattamento dei detenuti malati in Italia. La speranza è che questa tragica storia possa portare a una riflessione seria e a cambiamenti necessari nel sistema penitenziario, affinché nessun altro detenuto debba affrontare una sorte simile.
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