Con un intuito molto sicuro, la liturgia della Quaresima propone il mistero della Trasfigurazione di Gesù sul Tabor alla contemplazione del fedele che sale lentamente verso la festa di Pasqua, cioè verso i misteri della Passione e della Risurrezione, i quali si fondono in profondità in uno solo. Scegliendo la trasfigurazione come vangelo della seconda domenica, dopo il richiamo alle tentazioni di Gesù nel deserto, la Chiesa vuole evidenziare in questo avvenimento un momento critico e decisivo del ministero di Gesù in cammino verso la Passione. Dopo essere stato riconosciuto come messia dai discepoli ai quali predice solennemente le sofferenze e la morte a cui va incontro, Gesù ha voluto confermare la fede dei Dodici. O meglio, Dio stesso ha voluto confermare la fede dei discepoli rivelando loro, anche se per un attimo, la gloria del Figlio suo, che al di là della Passione si sarebbe pienamente manifestata nella Risurrezione e nell’Ascensione. L’episodio della Trasfigurazione rappresenta un momento così glorioso e misterioso della vita di Gesù, brilla di tanta ricchezza che si rende necessario uno studio impegnativo per determinarne il significato esatto.
La trasfigurazione giunge al momento cruciale in cui Gesù, che ha avuto le reticenze dei capi religiosi di Israele e l’indifferenza della folla, ma è stato riconosciuto come messia da Pietro e dai discepoli, rivela loro come si attuerà la sua opera: la sua glorificazione consisterà in una risurrezione al termine del passaggio attraverso la sofferenza e la morte. Lo scopo della trasfigurazione è dunque di anticipare agli occhi dei discepoli la gloria dell’ultimo giorno, condensata in quel Gesù che vive quotidianamente con loro. Essi dunque devono ascoltare e seguire Gesù lungo la strada che sale a Gerusalemme, verso la gloria attraverso la croce. Prima delle amarezze passeggere della passione, i tre discepoli migliori pregustano per un istante la gloria definitiva.
Il testo di Matteo (17, 1-9) evidenzia la rivelazione del mistero di Dio nella persona del Figlio. Dio apre gli occhi dei tre discepoli perché intravvedano la gloria divina nascosta nell’umile condizione umana assunta dal Figlio, specialmente dopo la professione di fede di Pietro, dove Gesù sottolinea la rivelazione divina, gratuita e inattesa, verso l’apostolo Pietro (il Padre mio che è nei cieli te l’ha rivelato). Pietro passa ancora una volta in primo piano quando propone di fare tre tende e riceve la grazia di ammirare nella gloria del Cristo trasfigurato quanto aveva saputo intravvedere nella sua professione di fede a Cesarea sotto l’ispirazione divina.
“E fu trasfigurato” (v. 2). La trasformazione di Gesù, che avviene sul Tabor, va tenuta ben lontana, nonostante l’identità del termine, dall’idea greca di metamorfosi. Gesù si trasforma nel volto e nelle vesti. La trasfigurazione attribuita a Gesù va riferita all’uomo Gesù, al suo corpo umano, il cui splendore rifulge attraverso il volto e le vesti: il volto come il sole e le vesti come la luce. Il sole e la luce sono simboli del compimento, del divino, così come la tenebra estrema simboleggia la sventura e la lontananza da Dio. Ma la rappresentazione del compimento di Gesù ha senso soltanto se viene letta in riferimento ai discepoli, vale a dire a noi: Gesù è il battistrada lungo la via che conduce a tale compimento, lui solo apre questa via.
“Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia” (v. 3). L’apparizione aggiuntiva di Mosè e Elia va vista sotto un duplice aspetto. Da un canto, la loro apparizione è resa possibile dal fatto che essi erano considerati come persone rapite in cielo. Ma per Matteo è più verosimile che Mosè e Elia debbano essere visti come rappresentanti della legge e dei profeti. Come Gesù è venuto a dare compimento alla legge e ai profeti, così sul monte compaiono Mosè ed Elia come suoi testimoni.
“Pietro prese allora la parola…” (v. 4). Pietro è il primo a reagire. L’idea di costruire capanne è per sé insensata, ma il nostro evangelista non la caratterizza come tale. Essa esprime il desiderio di trattenere il definitivo, che nella visione si è reso percepibile agli occhi umani. In tal modo, le capanne che Pietro vorrebbe costruire, si spiegano con le dimore eterne che attendono i giusti.
“Una nube luminosa li avvolse” (v. 5). L’apparizione della nube luminosa indica la presenza di Dio. Nella peregrinazione nel deserto, compiuta dalla generazione di Mosè, la nube accompagnava il popolo. La voce dalla nube costituisce il punto culminante del brano su cui stiamo riflettendo: “Ed ecco una voce che diceva…” (v. 5). Si dovrà cercare di coglierne il significato che l’evangelista le attribuisce tenendo conto del contesto del suo vangelo. Lo sfondo più probabile sembra essere Is. 42,1, e cioè il primo canto del Servo di Jahvè, dove il profeta presenta la sua immagine di Messia. Il tratto più marcato era il Messia mite e soccorrevole: Gesù è il Messia che porta la salvezza al suo popolo. In quanto Figlio di Dio, egli è il portatore della salvezza definitiva, che è diventata visibile nella sua trasfigurazione e comunione con i personaggi celesti, Mosè ed Elia. Perciò lo si deve ascoltare. Beninteso, il Figlio di Dio è più dell’atteso profeta finale simile a Mosè, di cui ci parla il Deuteronomio (18, 15). Chi vuol giungere alla meta definitiva della sua esistenza, chi desidera ricevere la pienezza del senso della vita, deve rivolgersi a lui.
“I discepoli caddero con la faccia a terra” (v. 6). Infatti, un tratto costante nei racconti di epifanie è che l’uomo che entra in contatto con Dio prova un profondo sbigottimento. Questo comportamento si fonda sull’immagine biblica di Dio, secondo la quale il Divino si contrappone all’uomo, e l’uomo è un essere completamente diverso. Sorprende che la reazione sia collegata con l’ascolto della voce: ciò è collegato con la concezione biblica, secondo la quale la parola ha un valore più importante della visione.
Bibliografia consultata: Coune, 1973; Gnilka, 1991.
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