Per gli addetti ai lavori e per i lettori più attenti, Emanuele Trevi meritava il Premio Strega da tempo, ma tant’è, lo sfiorò arrivando al secondo posto per una manciata di voti nel 2012 con il bellissimo “Qualcosa di Scritto”, Ponte Alle Grazie editore, e lo ha vinto la scorsa notte, finalmente, con l’altrettanto suggestivo “Due vite”, Neri Pozza.
Trevi non è solo scrittore raffinato, colto, empatico, è anche fine critico letterario e rimane un uomo di immediatezza e di approccio ‘’pop’’, vale a dire sempre molto modesto e conviviale quando lo si incontra o lo si intervista, ed è, per il mondo editoriale popolato da scrittori mediocri e saccenti per lo più, una rara eccezione. I suoi libri hanno la capacità di essere autentica letteratura, di mettere insieme il genere romanzo, il saggio filosofico, l’autobiografia, e Trevi ha il dono di essere uno scrittore ‘’illuminato’’ che, come scriverebbe Slovskij, opera uno straniamento, ci cambia lo sguardo.
Come ebbe a dire l’artista della macchina fotografica Arturo Patten, di cui Trevi racconta l’amicizia nello splendido altro suo libro “Sogni e favole”, Ponte alle Grazie editore, resta un “desperado”, “Arturo aveva ragione, e quella parola, desperado, pronunciata con il suo accento americano, era così vera che mi dava l’idea di una freccia conficcata nel bersaglio” (Sogni e Favole). Un ragazzo, ancora, a cinquantasette anni, che riesce a rievocare i morti, a celebrarli, renderli amatissimi dai lettori e a mettersi a nudo con quell’io che diventa universale, pur parlando soprattutto di altri scrittori, ai più sconosciuti, suoi amici che hanno lasciato questa dimensione.
“È solo dopo un po’ che ci rendiamo conto che quello che stiamo leggendo non è un romanzo come tanti altri. Perché quel mondo esterno, in realtà, non esiste se non nella mente del personaggio. O meglio, è uno spazio mentale, una proiezione, quella che gli indiani chiamano una ma-ya- è una magia potente, un attributo degli dei. Il mondo ci inganna facendoci facendoci credere nella sua sussistenza, nel suo esistere al di fuori di noi – e lo stesso fa il romanzo. Ma in realtà, ciò che sembra agitarsi là fuori, si agita all’interno di una singola coscienza“.
In una delle interviste che gli ho fatto, quando aveva appena terminato di scrivere “Due vite”, ancora non pubblicato, mi ha detto: “C’è una cosa che ho capito, di libro in libro: se tu ti immagini un morto, è farina del tuo sacco, te lo stai immaginando. Per esempio mio padre, che abitava in questa casa, sarebbe contento di me. Se me lo sogno è la stessa cosa, sono proiezioni nostre. Se lo scrivo è diverso. La scrittura è una tecnica in cui il morto fa sentire dentro una sua volontà, perché mentre stai governando le virgole, gli aggettivi e così via, tu stai guidando una barca, non stai pensando”.
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