Tv, “i Talent sono tutti un unico show” di Carlo Raspollini
La contraddizione di vincere per sparire: ti fanno sognare un successo che non arriva quasi mai
Le similitudini si sprecano, già le sento: è come nella vita. Ci vuole impegno, sacrificio ma alla fine tutti possono raggiungere l’obbiettivo di diventare qualcuno e mostrare il proprio talento. Il talent offre una scorciatoia a tutti i partecipanti. Cosa vuoi passare anni e anni sui libri all’università per poi fare i concorsi in 100.000, per 20 posti al Ministero? Vuoi gettare il sangue giorno e notte a lavorare come tuo nonno e tuo padre per poi morire appena vai in pensione? Ma che sei matto? Sai ballare? Sai cantare? Sai recitare? Col talent entri nella televisione dalla porta principale. File e file di ragazzi ogni anno cercano di superare i provini dei casting di “Amici di Maria de Filippi”, “The Voice”, “X Factor”, “Popstars”, “Music Farm”, “Tu si que vales” e sei sei giovanissimo va bene lo stesso, non c’è bisogno di aspettare, puoi andare a “Standing Ovation” con un parente oppure partecipare a “Sanremo Young” o a “Ti lascio una canzone” con la Clerici e come i tenorini del Volo spiccare il salto verso il successo, prima degli esami di liceo. Se invece sei stato famoso o lo sei solo a metà, del genere ospite prezzemolino e ti va di sottoporti a trucchi e sfide settimanali c’è “Tale e quale Show” con Carlo Conti. Se invece sei stato una meteora nel mondo dello spettacolo e ora vuoi una seconda opportunità, per te c’è “Ora o mai più”, talent per sfigati, che possono riscattarsi, condotto da Amadeus.
In questo articolo vorrei non tanto analizzare i vari Talent Show italiani ma dimostrarvi che sono tutti un unico programma, una pappa mediatica che si rincorre con nomi, loghi e produttori diversi, in qualche caso nemmeno quello, ad orari simili, in differenti reti tv nazionali. Tra loro i vari talent si scambiano i giurati, un concorrente che emerge in uno show poi va a fare il giurato in un altro. La stessa società ne può produrre diversi e quindi i registi e gli autori possono essere gli stessi e così gran parte del gruppo di lavoro redazionale. Ci sono dei nomi ricorrenti nelle giurie, appaiono e spariscono, ritornano e passano da un talent all’altro: Marco Masini, Iva Zanicchi, Morgan, Mara Maionchi, Nek, Francesco Renga, Loredana Berté, J Ax, Riccardo Cocciante, Romina e Al Bano separatamente, Roby Facchinetti e figlio insieme, Victoria Cabello, Fedez, Piero Pelù, Raffaella Carrà, Elio (delle Storie Tese), Simona Ventura, Manuel Agnelli. La sfortunata vicenda di Asia Argento, prima coinvolta come giurata perché molestata e poi cacciata perché forse molestatrice, è emblematica di come siano gli sponsor a comandare!
Morgan ha un record: in dodici edizioni ha vinto sette volte con i ragazzi a lui affidati. Antonio Maggio (Aram Quartet) e Marco Mengoni hanno vinto “X Factor” e poi “il Festival di Sanremo”. Giusy Ferreri con Emma, Noemi e Marco Mengoni sono forse i soli che abbiano intrapreso una carriera grazie ai talent. Noemi ha fatto poi la coach a “The Voice”. Costantino della Gherardesca ha condotto alcune edizioni di “The Voice” come ora conduce “Pechino Express”. Francesco Facchinetti ha condotto “X Factor” e ha fatto il giurato a “The Voice”. Non cito altri conduttori perché i loro nomi suonerebbero insignificanti. Emma Marrone deve ringraziare la De Filippi per il suo successo ad Amici di cui ha fatto anche la coach, come la Ferreri. Insomma una pappa!
Al punto che ho potuto estrapolare le 12 caratteristiche che si ritrovano in tutti talent musicali e nei talent in genere e ne costituiscono le fondamenta:
- La gara. Una sfida canora tra sconosciuti guidati da un coach/cantante famoso. In realtà i coach sono di più ma al pubblico non deve interessare.
- La giuria/coach. I giurati selezionano, giudicano e aiutano i concorrenti a vincere. Ma le selezioni sono spesso pilotate, forse all’insaputa dei concorrenti.
- Rotazione dei giurati. Possono apparire in differenti talent, in edizioni diverse.
- Si riproducono. Una volta che abbiano vinto, i concorrenti (pochi), possono diventare giurati di altri talent, nelle edizioni successive e creare nuovi vincitori.
- Uno su 1000. Dei vincitori solo pochissimi riescono a raggiungere la fama.
- Sconosciuti. Della maggior parte dei vincitori dei talent nessuno ricorda il nome.
- Il sangue. La sfida impone che gli sconfitti escano dalla gara tra lacrime e abbracci.
- Uccide il talento. L’illusione di aver sfondato è la base della disillusione, quando si comprende di non esserci riusciti veramente.
- Identità. Minima, impercettibile. Per lo spettatore medio è difficile distinguerli, sembrano tutti uguali. Per i fans sfegatati c’è un talent preferito ma non sa perché.
- Conduttori. Meno noti e meno adulti sono e meglio è. Quando lo diventano si cambiano.
- Scene. Ricche di luci tipo discoteca e colori sgargianti. Pubblico sempre euforico.
- Backstage. Parenti e amici in lacrime soffrono durante ciascuna performance.
In base a queste caratteristiche si può consapevolmente dire che i talent tradiscono la funzione apparente per cui si propongono al grande pubblico, per assolverne una invece utile al mezzo televisivo, lo spettacolo dell’arena, quello all’ultimo sangue. Nei talent solo un vince, tutti gli altri “muoiono”, anche se solo artisticamente. Quello che in gergo televisivo gli autori chiamano “il sangue” è alla base del successo del talent. La cattiveria è del meccanismo non dei giudici che, con tristezza e rammarico, con grande pena, sono costretti a fare una scelta. La scelta contenta e scontenta il pubblico, apre discussioni, scontri sul web e sui social network che decretano, a loro volta, il successo del programma tra i ragazzi. I concorrenti sono all’80% tutti bravi, tutti meritano una occasione, prima di essere eliminati inequivocabilmente, inesorabilmente, approssimandosi la finale.
Si dice che questa sia la rappresentazione della vita. Non della vita, del sistema di selezione in atto nel mondo occidentale. Vi assicuro che vi sono molte culture che si preoccupano più di far crescere i giovani nel rispetto dei valori di amicizia e collaborazione reciproca piuttosto che in quello della eliminazione dell’avversario. Con i talent si sposano i criteri del conflitto, non della collaborazione. Il talent è più prossimo a uno scontro militare che a una bottega rinascimentale di pittura e scultura o una scuola di musica e bel canto. Con i talent si impara a essere duri e spietati con gli altri e con sé stessi e, nel caso, a ripetere il male che si subisce con il prossimo avversario. È il modello competitivo vigente che ne favorisce alcuni e ne distrugge molti. Dall’anno 2000, più o meno, la tv italiana tutta, ha scelto questo modello per farne quello unico di riferimento degli adolescenti e dei giovani. Attraverso i talent, gli unici programmi ormai seguiti da giovanissimi, si formano le generazioni di singoli eterodiretti. Il talent si segue in tv ma poi nella settimana si segue ciascuno per proprio conto, sullo smartphone, le prove, si vota, si interagisce con i concorrenti e i giurati. Hai voglia a parlare di arte, di libertà e di denuncia nelle canzoni. Alla fine quello che conta è solo se vinci e se ti confermi facendo fuori gli altri.
Nel talent per bambini “Ti lascio una canzone” nel 2009 il regista Roberto Cenci pensò di unire tre ragazzetti dalle voci tenorili: Gianluca Ginoble, Piero Barone e Ignazio Boschetto e nacquero così i “Tenorini” poi rinominati “Il Volo” dal manager Michele Torpedine. Oggi è proprio l’impresario che più di ogni altro ha tratto beneficio dal talent a criticare il meccanismo che li caratterizza. Chiede apertamente di cambiare io format in modo da favorire l’emergere del talento dei concorrenti. In sostanza Torpedine accusa le giurie di non essere all’altezza della missione. Uno show non è una scuola di musica dove gente di provata esperienza e professionalità sa come valutare le capacità dei ragazzi. In buona sostanza Torpedine non crede, e fa bene a farlo, alle capacità dei giurati dei talent. Come al solito la tv mente. Lo spettacolo viene prima di ogni altra cosa e sono gli autori e non i giurati a tirare le fila del gioco e a fare in maniera, con le scalette e le manovre dietro le quinte, che emergano i personaggi che più funzionano, che fanno più ascolto.
Il fine di un programma è vendere a quanto più pubblico possibile la pubblicità che ospita. Questa è la unica vera motivazione che ispira ogni trasmissione. Ma quale informazione, quale educazione, quale arte e cultura! Dobbiamo vendere le bibite gassate e le vacanze in crociera e ci serve un alto ascolto, altrimenti scattano le penali. Torpedine conosce bene il mezzo e i suoi operatori ma lui ha motivazioni che non coincidono che in parte con quelle dell’emittente. L’audience va bene anche a lui ma con un po’ più di attenzione alla qualità. Senza mezze parole propone che la giuria sia fatta da veri esperti musicali lasciando ai conduttori palette finte e pulsanti inattivi. “Voglio citare, afferma, che programmi come Ti lascio una canzone (Raiuno) e Io canto (Canale 5) verranno ricordati solo per il successo avuto in tutto il mondo di tre ragazzi. Cosa ne è stato delle migliaia di altri partecipanti e dei ragazzi esclusi dalle prime selezioni? Siamo sicuri che le commissioni abbiano fatto le cose giuste?”
Sicuramente hanno fatto gli interessi dei programmi, come ho già specificato prima. Torpedine ci prova ma sa benissimo che la televisione è così e non si cambia. Le regole dello show valgono indifferentemente per tutti i talent, sia che parlino di musica come di cucina: “Master Chef” o di viaggi: “Pechino Express” o danza: “Ballando sotto le stelle”. Non ci inventiamo niente di nuovo rispetto al passato. L’unica novità è questa interattività tra trasmissioni diverse, resa possibile dalla presenza di società di produzione che operano con tutte le emittenti italiane e straniere. Rai, Mediaset e Sky indifferentemente sono complici, in questa giravolta continua di personaggi, nel rubarseli l’una con l’altra, tramite le varie Fremantle, Endemol, Magnolia, Ballandi… che dir si voglia. Sono loro che omogenizzano l’offerta, usano l’emittenza a loro vantaggio, cambiano a loro piacimento le regole del gioco, ricavandone un risultato soddisfacente per la Concessionaria della pubblicità e quindi peri propri accordi commerciali.
Insomma via via perdono il loro ruolo autori, funzionari, direttori di rete, per diventare strumenti del compimento dell’obbiettivo prefissato. Lo show deve rispondere a una “Bibbia” e chi gestisce la legge non è l’emittente ma il depositario del format. L’emittente trasmette e basta. Diranno che esagero, che assolutamente non è vero. Ma credetemi, e Torpedine l’ha svelato, i programmi si fanno per vendere pannolini, non per trovare cantanti di successo. Quando succede, per miracolo, ci vuole un manager fortunato per cogliere l’occasione. Come in guerra: esperienza, capacità e fortuna. Magari facendo dei “morti” (è un’iperbole) che si possono chiamare Roberto Cenci e Tony Renis ma ci sta, chi ha più capacità vince, sa come far fruttare l’oro in cui si è imbattuto e che altri non hanno compreso bene in tempo! A lui i miliardi guadagnati dagli artisti. A noi il piacere (ripetitivo) di vivere la metafora della vita sul piccolo schermo, vedendo trionfare uno sconosciuto come noi, che fra qualche mese avremo dimenticato, per poter sognare di prendere il suo posto.