Tv: il contraddittorio politico è un bluff
Nei programmi televisivi ci si confronta dicendo sempre meno, a danno del reale dibattito tra partiti e società
In questi giorni sento parlare molto degli interventi dei politici in tv, privi di contraddittorio, come se questa fosse un’astuzia della trasmissione ospitante, per favorire il politico di turno. Sulla questione di quale sia il migliore metodo per presentare in tv la politica, si discute da sempre, da quando l’anchilosata “Tribuna Elettorale” gestita dai due “sacerdoti” Ugo Zatterin e Jader Jacobelli, come una messa sacra, invadeva le nostre televisioni in bianco e nero, con poche opportunità di fuga da parte dello spettatore, perché le alternative non c’erano e se c’erano erano peggio della “officialità” della “messa” politica. Comunemente si ritiene, e sui social lo si sente dire spesso, che il sistema del contraddittorio, magari con una tempistica regolata, sia la formula più rispettosa del democratico confronto. Il conduttore introduce i due contendenti e loro parlano per un tempo dato, rispettosamente non interrotti dall’avversario. Questa è la formula adottata dai confronti presidenziali americani ed anche utilizzata in passato da Bruno Vespa e da altri, per i confronti tra candidati italiani. Sicuramente ha le caratteristiche di rispetto e di garbo che necessitano in uno scontro/confronto tra gentleman. Solo che richiede molte formalità e regole rigide che ne fanno una formula imbalsamata, buona per lo scontro finale ma non per le trasmissioni “calde” in campagna elettorale. Dove l’attualità della cronaca prende il sopravvento.
Sono ormai molti anni che le campagne elettorali hanno travalicato le modalità tradizionali di rispetto dell’avversario e del pubblico, affinché possa comprendere le linee programmatiche di ciascun partito, con risposte esaudienti e pertinenti. Abbiamo assistito tutti ad anni di “vaffanculo day” e di sproloqui televisivi dove l’unica cosa che mancava erano i progetti programmatici, per lasciare spazio a parolacce, offese, neologismi e slogan che colpissero l’emotività del pubblico e non lo annoiassero con proposte razionali. Chi imboccava la strada della razionalità restava al palo, rispetto al fascino dei gesti, delle battute, delle sfuriate e delle liti. I confronti politici elettorali si sono trasformati in risse, interruzioni continue, accavallamenti di voci dai quali è sempre difficile trarre una indicazione logica. Vince il più simpatico, quello che ha la battuta pronta. Potete ritrovare sui Youtube alcuni di questi momenti storici con il commento espresso già nel titolo: “Tizio distrugge Caio”, “Sempronio asfalta Tizio”, ecc. Troverete solo uno dei due interventi, non saprete mai la risposta, a meno che non l’abbiate vista in diretta tv. Ma questo attiene alla propaganda ed è logico e legittimo che sui social ognuno attacchi i propri “manifesti” parziali, come una volta si faceva sui muri delle periferie.
Nelle trasmissioni show, che si sono moltiplicate a dismisura negli ultimi anni, tutte cloni del genere “dibattito”, ci si differenzia solo nella scena, nella capacità del conduttore, nella pregnanza degli ospiti, con servizi/inchieste tutti uguali, dove si mostra una tesi precostituita per fomentare il dibattito. È impossibile realizzare inchieste giornalistiche esaustive su questioni opinabili in meno di due o tre minuti. Quindi vince la formula della provocatorietà. Ti mostro un aspetto della realtà e tu –se vuoi- me la confuti in studio. Gara ìmpari, perché le immagini in tv parlano più delle chiacchiere.
Sinceramente il genere contraddittorio a me ha stancato. Trovo la formula la più adeguata a non far capire nulla a chi segue. Normalmente è solo un litigio, dal quale non si comprende niente delle due tesi. In genere ci si rinfaccia errori del passato o fatti di cronaca recenti e le linee programmatiche restano in secondo piano. Esporle è sempre pericoloso, perché annoiano. A meno che non si riduca il programma a una serie di slogan: flat tax, reddito di cittadinanza, reddito d’inclusione, rottamare, prima gli Italiani, ecc. Slogan che spesso vengono confutati con altrettanti slogan. Non interessa a nessuno dei due passare ai distinguo, anche perché avrebbero poca presa sull’audience e il conduttore li interromperebbe con un servizio importantissimo.
Trovo molto più adeguate le trasmissioni nelle quali il contraddittorio non c’è. Dove uno o più politici vengono ospitati assieme a segmenti della società, che non siano solo i giornalisti, magari persone anche lontane dal linguaggio retorico e autoreferenziale della politica. In questi giorni ho ascoltato con attenzione i telegiornali che informavano sul decreto legge sulla sicurezza del governo giallo verde. Nei titoli teneva banco la parola “prescrizione”. Dai titoli e dagli interventi non si poteva comprendere in che modo questa parola dividesse le formazioni del governo. Nell’informazione scontata del giornalismo nazionale, la necessità di sintesi, rende vana la chiarezza della notizia, per i non addetti ai lavori. Già il termine non è uno abitualmente in uso tra le classi popolari. Si può intuire ma è difficile da spiegare.
In Italia ci sono circa 17 milioni di analfabeti funzionali, persone che pur sapendo leggere e scrivere, non hanno gli strumenti analitici e critici per cogliere appieno il senso di quello che leggono o ascoltano. Si tratta del 28% della popolazione, come certifica un recente studio realizzato dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies, ideato dall’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. È un fenomeno ben noto ai linguisti ma ignorato dai giornalisti, perché li porrebbe di fronte a una grave responsabilità. Lo conosceva bene Tullio De Mauro, ne parlò Umberto Eco e, infine, Enrico Mentana coniò il neologismo che ebbe molto successo: “webeti”, riferendosi ai fruitori della rete. Penso di poter abbastanza inconfutabilmente ritenere che, quando si parla di tv e di trasmissioni politiche, la percentuale sia anche maggiore. Non per mancanza di capacità cognitive ma per pigrizia mentale, per nausea, per stanchezza dell’audience a confrontarsi con le solite facce e le solite accuse.
La politica, con l’avvento della rete, sta progressivamente, non abbandonando, ma diminuendo il suo focus sulla stampa e sulla tv, per concentrarsi sulla rete, dove però si parla al “webeti” come loro vogliono, cioè con foto, fake news, slogan. In sostanza la politica, nei suoi messaggi, si sta sempre più piegando alle regole della pubblicità. per ottenere più facilmente quei consensi che una volta si conquistavano con faticose riunioni di quartiere, di condominio, di sezione, che poi trovavano nella manifestazione di piazza, con corteo e nel comizio. il loro momento conclusivo e di popolo. Oggi il popolo è frantumato davanti ai telefonini, ai computer, ai tablet e se lo vuoi raggiungere la tv non basta, come non bastano i giornali che pure entrano nei social e si avvalgono dei twitter e dei messaggi su Facebook e Instagram. Non c’è bisogno che avvalori questa mia tesi con ulteriori precisazioni.
Allo stadio le fazioni che si affrontano urlano slogan. Non elaborano temi o argomenti. Chi urla di più prevarica l’altro. Chi ha le bandiere più grandi e gli striscioni più lunghi vince sull’avversario, che sparisce nel caos della sfida. Mutuatis mutandis “il popolo”, cui qualcuno a sinistra ancora ingenuamente si ispira, utilizza lo stesso criterio sul web, quando una delle fazioni in lizza si permette di avanzare una proposta o una critica, avallare una notizia, denunciare una contraddizione del partito avversario. Di più, la veemenza del linguaggio sembra mutuarsi da quella sportiva e la critica diventa subito offesa, che qui non ripeterò a titolo di esempio, perché mi fa orrore solo assistervi. Credo che le offese qualifichino chi le fa e non chi le riceve. Ritenendosi dei geni con “Dio dalla propria parte”, come i crociati del Medioevo, questi fans non hanno mezzi termini e frasi come “idiota”, “deficiente” sostanziano la pochezza dei loro interventi. Quando non si passa addirittura alla minaccia di morte diretta, per il malcapitato e per i suoi cari. Un certo squadrismo di triste memoria, ha invaso la rete e le fazioni, per scagliare contro l’avversario le più meschine minacce, con ricordi di “Piazzale Loreto” e dei “Forni di Auschwitz” come deterrente per le controparti. Non c’è più dialogo, non c’è più confronto, c’è solo rissa, se ci fossero le armi si sparerebbe e in qualche caso è successo, purtroppo, che si sia scesi in strada per ammazzare degli innocenti. Lo abbiamo visto in Italia ma lo vediamo da tempo nei casi famosi di cronaca accaduti nelle sinagoghe e negli assembramenti di persone, nelle scuole degli Stati Uniti, in Norvegia, in altre parti del mondo.
La televisione non è avulsa dalla realtà. Non si spara ancora nei programmi in diretta o registrati, ma l’odio traspare e l’offesa sta prendendo sempre più spazio. Il talk show politico non fa più ascolto ce non c’è il rischio dello scontro verbale duro. Affinché questo accada ci sono dei personaggi ad hoc: Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Mario Giordano, Aldo Busi, Diego Fusaro, Alba Parietti, Alessandra Mussolini, o i “talebani” della famiglia Mario Fontana o Mario Adinolfi. Loro sono le micce su cui puntare, come una volta succedeva con Ignazio La Russa, Umberto Bossi, Giuliano Ferrara, Mario Borghezio, Roberto Formigoni o l’altro integralista cattolico Antonio Socci o il turbolento “pasdaran” Carlo Casini dell’Azione Cattolica. Quando vedete uno di loro tra gli ospiti sapete già come andrà a finire e non mi dite che vi fermate a guardare per vedere cosa dicono, perché non lo sentirete mai. Non hanno nulla che possono dire qui, devono solo fare spettacolo. Anche Roberto D’Agostino è stato spesso utilizzato in questa chiave ma da tempo lo vedo intervenire con maggior esito da solo, ad analizzare la realtà politica e comunicazionale attuale, con dovizia di notizie e di scoop che fanno parte del suo bagaglio professionale.
L’intervista singola, o se volete, con un numero ristretto di giornalisti capaci, mi dà molte più informazioni sul pensiero dell’ospite politico. Ognuno di noi ha le proprie idee e la propria esperienza che lo conforta nel prendere in considerazione le affermazioni dei vari leader dei partiti. Ognuno può farsi una idea abbastanza chiara ascoltando i vari leader in singole trasmissioni. Utilmente incalzati da cronisti senza peli sulla lingua. Come quelli che Donald Trump vorrebbe zittire alle conferenze stampa presidenziali. Zittire la stampa è sempre un boomerang per un politico. Alle domande si risponde, ma non con le accuse e le minacce, con gli argomenti e con la verità, se ce n’è una dichiarabile. Non è necessario trattare lo spettatore come il citato “webete”, proponendogli le due versioni (incomprensibili) della visione politica attuale. Vari programmi di tendenze esplicitamente diversificate a destra e a sinistra, offrono molteplici occasioni per farsi una ragione delle varie posizioni e della credibilità dei contendenti. Trattare il pubblico da adulto sarebbe il primo passo verso una tv che informa, da posizioni dichiarate, sui problemi di tutti. Ascoltare, valutare e poi documentarsi sarebbe quello che c’è da fare e che distingue il cittadino consapevole dal “webete”. Non è certo col contraddittorio che chi non sa, o non vuol sapere, si farà un’idea precisa.