Stavolta c’è scappato il morto. Perché ogni tanto succede, quando lo scontro fra ultrà smette di essere la “sana” scazzottata di un tempo (che era molto, molto tempo fa) e si trasforma in una battaglia in cui può accadere di tutto. E infatti è così: accade di tutto.
Accade di tutto perché non ci sono regole. Tanti contro pochi. Armati contro disarmati. Violenti che smaniano dalla voglia di menare le mani, o di calare le mazze, o di affondare le lame, che assalgono chi capita. Ivi inclusi quelli che invece vorrebbero starsene in pace. O che al massimo si limiterebbero a intemperanze di poco conto. Agli sfoghi beceri, ma fondamentalmente innocui, degli insulti e degli sfottò tra opposte tifoserie.
Quello che è avvenuto mercoledì sera a Milano è esemplare. Il questore del capoluogo lombardo, Marcello Cardona, lo ha ricostruito così: “Poco prima della partita un pulmino con a bordo gli ultras del Napoli è stato attaccato da un centinaio di supporter dell’Inter, del Varese e del Nizza. I tifosi nerazzurri hanno colpito con spranghe e bastoni il mezzo dei napoletani, la colonna si è bloccata e immediatamente c’è stato un fuggi fuggi di persone. Negli stessi istanti nella corsia opposta un suv ha investito il 35enne. La persona alla guida non è ancora stata rintracciata e potrebbe non essersi accorta dell’incidente. I primi ad attirare l’attenzione sul 35enne sono stati i tifosi del Napoli, poi quelli dell’Inter lo hanno portato in macchina in ospedale, dove è morto”.
Come è ormai noto, l’ucciso si chiamava Daniele Belardinelli. E conduceva una sorta di esistenza sdoppiata. Nella versione “pacifica” faceva il piastrellista e viveva onestamente. In quella “bellicosa” frequentava il gruppo Blood Honour di Varese. Che è appunto la frangia più violenta del tifo locale e che esibisce il tipico repertorio teorico-pratico dell’estrema destra, dalle scritte simil-runiche alle teste rasate, dai richiami all’ardimento agli atteggiamenti paramilitari. A metà strada, o giù di là, praticava con successo uno sport da combattimento: la “scherma corta”, ossia con i coltelli anziché con le spade.
Siamo al cuore del problema. Belardinelli era un banale facinoroso, con un rivestimento ideologico raffazzonato, o era qualcosa di più complesso? Lui, e quelli come lui, vanno trattati come nulla di più che dei teppisti da tenere a freno con provvedimenti solo repressivi – o pseudo tali, come il Daspo – o viceversa bisogna approfondirne le motivazioni, domandandosi se quella violenza sia solo distruttiva e antisociale o se non nasconda, invece, un bisogno insoddisfatto di intensità?
In altre parole: ogni forma di aggressività va rifiutata in quanto tale, o sarebbe meglio riconoscerne l’esistenza e ragionare su come incanalarla?
La società odierna, riguardo a questo genere di tematiche, e di tensioni, è sommamente ipocrita. In nome di una razionalità astratta nega alcuni tratti peculiari della natura umana. Tra i quali, appunto, la spinta istintiva allo scontro fisico. Che specialmente tra i giovani (o tra i non invecchiati, e i non imbolsiti) è un indice di vitalità, anziché di delinquenza. Anche se poi la vitalità conculcata può diventare insofferenza. Ribellismo. Illegalità.
La negazione diventa a sua volta rimozione.
E la rimozione impedisce di affrontare davvero il problema. Della violenza ultrà ci si scandalizza. Quella degli speculatori di Borsa, o dei manager d’assalto, la si accetta senza battere ciglio.
Contraddizioni che fatalmente riemergono, in un modo o nell’altro.
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