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Un Padre misericordioso

La parabola del figlio prodigo (Lc. 15, 11-32) che ascolteremo nella quarta domenica di Quaresima è indubbiamente una delle pagine più attraenti di tutto il Vangelo. Essa si divide nettamente in due episodi, separati dal breve ritornello delle parole del padre: “perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24). Il primo descrive il comportamento del padre verso il figlio prodigo, il secondo presenta il padre alle prese con il primogenito. Per comprendere meglio l’insegnamento di Gesù con questo racconto, pensiamo essere cosa utile cercare di determinare quale sia stata l’occasione della parabola, orientando subito la nostra attenzione sul ritratto da essa tracciato dei due figli, iniziando dal figlio maggiore, per occuparci poi del padre e dell’insegnamento che Gesù ha voluto dare per mezzo di questa bella parabola.

All’arrivo del fratello minore, il primogenito era occupato nei lavori dei campi. Ritornando a casa la sera, dopo una giornata di lavoro, non sa ancora nulla. In casa, la festa ha raggiunto il culmine: musica e danze. Egli domanda a un servo che cosa stia succedendo, e il servo gli dice che era ritornato suo fratello minore e che il padre aveva ucciso il vitello grasso perché lo aveva riavuto sano e salvo (cfr. v. 27). Il giovane accoglie la notizia molto male; si fa prendere dalla collera e decide di non andare alla festa. Poiché si rifiuta di entrare, il padre esce e lo prega di condividere con lui la sua gioia per il figlio perduto e ritrovato. Sotto l’impeto della irritazione, il primogenito vuota il sacco: a me che ti sono stato fedele, afferma, non mi hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ed ora che questo qui (“tuo figlio”) è ritornato dopo aver dilapidato il tuo patrimonio con le prostitute, hai addirittura ucciso il vitello grasso destinato alle mie prossime nozze.

Il figlio maggiore pensa che la condotta del padre non sia giusta, e dobbiamo ammettere che non ha torto. La sua lagnanza ricorda quella degli operai della prima ora che ricevono lo stesso salario degli operai dell’ultima ora (Mt. 20, 12). In queste recriminazioni possiamo riconoscere un’eco dei sentimenti di coloro a cui Gesù destinava queste parabole: gli scribi e i farisei. I termini con cui il figlio maggiore descrive la sua fedeltà verso il padre (cfr. v. 29) sono precisamente quelli che definiscono l’ideale religioso degli scribi e dei farisei: servire Dio con perseveranza (“io ti servo da tanti anni”), cercando con estrema cura di non trasgredire nessun comando (“e non ho mai disobbedito a un tuo comando”).
Passa poi a parlare del secondogenito con un tono sprezzante, evitando di chiamarlo “mio fratello”, preferendo chiamarlo “questo tuo figlio”: era lo stesso modo con cui gli scribi e i farisei trattavano i peccatori. Questi ultimi sono convinti che una religiosità esemplare come la loro conferisca dei diritti. Non sono i peccatori che li scandalizzano: per costoro hanno solo disprezzo. Il loro scandalo nasce dal comportamento di Dio che Gesù diceva di rivelare: se Dio usa loro tanta misericordia, che vantaggio avranno ancora i giusti? Se i peccatori sono i privilegiati della grazia, a cosa serve osservare ancora i comandamenti? Crolla il fondamento della loro esistenza, viene meno la loro persuasione più profonda: ma che Dio è questo? Neanche lui è giusto!

Il secondogenito, invece, dopo aver ottenuto la sua parte di eredità, parte per un paese lontano: qui dilapida ogni suo avere conducendo una vita da dissoluto. Si ritrova a fare il guardiano di porci: è il colmo della degradazione agli occhi di un ebreo. Giunge infine l’ora del ripensamento, noi diremmo interessato. Infatti, non gli rincresce il suo comportamento egoista che aveva causato tanto dolore al padre, ma la sua stupidità che lo ha portato a morir di fame fuori di casa, mentre i domestici di suo padre hanno pane in abbondanza. Il suo pentimento non è perfetto, ma è quanto gli serve per tornarsene a casa sperando nel perdono del padre: “Padre, ho peccato verso il cielo e davanti a te” (vv. 18.21). Ma noi sappiamo che egli ritorna a casa per poter mangiare a sazietà come i servi del padre. Infatti, così venivano considerati i peccatori agli occhi dei farisei e degli scribi, e Gesù in questa parabola ne tiene conto, senza voler idealizzare la figura del peccatore, rappresentato dal figlio minore.

E’ sul padre, invece, che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Quando scorge il proprio figlio, ancora lontano, fu afferrato nell’intimo del suo essere da un impeto di pietà e di compassione e si precipita di corsa in direzione del figlio; questi incomincia a recitare la sua frase preparata prima, ma non ha il tempo di finirla, perché il padre ha troppo fretta e dice ai servi: ”Presto”, senza perdere un istante, fategli indossare la veste più bella, mettetegli un anello al dito e calzature ai piedi, macellate il vitello grasso e mettiamoci a tavola per celebrare l’avvenimento.
La gioia del padre è così traboccante ch’egli non riesce a trattenersi, perché “mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24). Che importa il passato, dal momento che il figlio è ritornato? Il padre dà libero sfogo alla gioia, perché ama come solo un padre e una madre possono fare. Ai farisei che si limitavano e vedere l’indegnità del peccatore, Gesù non risponde discutendo sul comportamento del figlio (un discutibile pentimento), ma mettendo in luce l’amore del padre.

Con il figlio maggiore, invece, il padre non interrompe le sue lagnanze: ascolta fino alla fine i rimproveri che gli vengono rivolti, e poi risponde con un tono affettuoso che contrasta nettamente con la durezza del suo primogenito. E comincia a ricordargli che non solo il capretto gli apparteneva, ma anche “tutto ciò che è mio è tuo” (v. 31), per cui non può davvero lamentarsi di essere stato trattato ingiustamente da suo padre. Inoltre, vuol fargli capire che se il padre è felice per aver ritrovato suo figlio, perché il fratello non dovrebbe essere altrettanto felice di ritrovare suo fratello?

Il racconto non a caso rimane in sospeso: sono gli ascoltatori, infatti, che devono dire se accolgono l’invito della parabola “a far festa” (v. 24); si sarà lasciato convincere il primogenito ad entrare nella sala del festino? Accettiamo di partecipare alla gioia di Dio, quando un peccatore si ravvede? Tocca a noi concludere la parabola, accettandone la rivelazione della incommensurabile tenerezza di Dio per i peccatori e dell’esigenza che comporta per noi, amando, cioè, il nostro fratello tornato a vivere.

Bibliografia consultata: Dupont, 1970; Fausti, 2011.

Redazione

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