Un Re crocifisso
La croce di Cristo salvezza del mondo
Domenica 24 Novembre termina l’anno liturgico con la festa di Cristo Re e Signore dell’universo e nella celebrazione eucaristica domenicale ascolteremo il Vangelo di Luca (23, 35-43), che narra il dialogo di Gesù morente con i due ladroni al suo fianco, con la promessa del paradiso al buon ladrone. Il brano ci presenta la regalità di Gesù, principio di salvezza. Dall’alto della croce, suo trono, il Signore compie il giudizio sui nemici: perdona e dona il Regno ai malfattori. Cristo in croce è il vero re: non un potente monarca di quaggiù, ma un Signore umiliato e ridotto all’impotenza per avere amato i suoi fino all’estremo limite dell’amore. E’ un re che esercita la sua libertà nel servire: l’unico suo potere è amare fino alla morte.
“Salvi se stesso” (v. 35), è il ritornello ripetuto sul Golgota. L’autosalvezza rappresenta la suprema aspirazione dell’uomo che, mosso dalla paura della morte, cerca di salvarsi da essa a tutti i costi, instaurando la strategia dell’avere, del potere e dell’apparire. Gesù non ci libera dalla morte, ma dalla paura di essa, che ci avvelena tutta la vita. Cade la falsa immagine di un Dio tremendo, che sta all’origine della paura della morte, causa dell’egoismo, causa dell’ansia di vita, causa della brama di avere, di potere e di apparire, causa di ogni male.
Il crocifisso morente sulla croce sembra non avere alcuna rilevanza, né religiosa, né politica, né personale. Gesù è religiosamente un maledetto (“maledetto chi pende dalla croce”), politicamente un impotente (condannato a morte dall’autorità romana), personalmente un fallito (“altri salvò! Salvi se stesso…”). Sulla croce pare che tutto finisca e torni come prima. Anzi peggio di prima, perché il male sembra aver vinto. Ma sappiamo che non è così, se esaminiamo la struttura del racconto della crocifissione che sarà proclamata nella festa di Cristo Re e Signore dell’universo.
Luca racconta che il corteo della crocifissione arriva nel luogo denominato “Cranio”, in ebraico “Golgota”; inoltre, indica con estrema concisione la crocifissione dei due malfattori: questo termine, preferito a quello di “ladroni” usato dall’evangelista Marco, contrasta con il termine “Giusto”, applicato a Gesù che subisce il suo destino senza aver fatto nulla di male. Nella narrazione, poi, Luca aggiunge una breve nota sul ruolo del popolo, distinguendolo da quello dei capi: il popolo che stava a vedere, dopo la morte di Gesù, se ne ritorna a casa battendosi il petto, manifestando così la loro tristezza e la disposizione a convertirsi; i capi, invece, scherniscono Gesù: “ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio” (v. 35). Anche i soldati romani si associano alle loro derisioni in termini analoghi, chiamando Gesù “re dei Giudei”, conformemente all’accusa presentata davanti al governatore Ponzio Pilato, che aveva fatto scrivere il “titulus crucis” (INRI) più per deriderlo che per indicare la colpa di Gesù.
Tutto l’insieme dà l’impressione di preparare al dialogo che sta per aver luogo tra i malfattori e Gesù. Dei due uomini crocifissi con Gesù, Luca dice che sono appesi alla croce, riservando il termine crocifiggere a Gesù soltanto. Alle ingiurie di uno dei malfattori, il “buon ladrone” risponde con un rimprovero (v. 40-41). Egli vuol dire che di fronte alla morte, la maledizione e l’oltraggio devono cessare; c’è più spazio solo per il timore di Dio, Signore della vita e della morte; siamo implicati gli uni con gli altri in uno stesso destino e non possiamo scioglierci da questa solidarietà. Ma qui si aggiunge che noi subiamo una giusta punizione, mentre quest’altro a cui erano rivolti gli oltraggi soffre ingiustamente. La sua croce è ingiusta, sembra dire il buon ladrone, perché lui è giusto e passò tra noi facendo solo del bene.
Ma perché è qui in croce, vicino a me, giudicato e abbandonato da tutti? Scrutando Gesù in croce conosco chi è Dio e la sua salvezza. Egli è grazia e misericordia per me, peccatore perduto, fino a farsi lui stesso peccato e perdizione.
Attraverso tutto il racconto di Luca viene resa testimonianza alla giustizia di Gesù e alla sua innocenza. Nel suo secondo intervento, il buon ladrone si rivolge a Gesù direttamente e gli domanda, con grande fiducia, di ricordarsi di lui: “Gesù, ricordati di me quando giungerai nel tuo regno” (v. 42). E’ l’unico che chiama Gesù per nome, senza ulteriore specificazione. Ha scoperto l’amico, il cui amore è più forte del peccato e della morte. Questo “ricordo” di Dio si identifica con la sua presenza attiva: egli allontanerà la disgrazia e darà la garanzia che la chiamata della fede è stata accolta. Gesù, il Figlio crocifisso, è il ricordo presso il Padre di ogni figlio perduto. Si è fatto ultimo di tutti, perché nessuno più potesse sentirsi abbandonato e maledetto, neanche morendo in croce da malfattore. Dio è ormai nel punto più lontano da Dio, per essere vicino a tutti. E Gesù risponde: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso” (v. 43). Nella risposta Gesù conferisce una dignità e un vigore pieni di solennità. Nessun uomo aveva ancora ricevuto da parte di Gesù questa garanzia strettamente personale di vivere con lui nel paradiso. Ma “ora” avviene proprio questo, nell’ora in cui tutta l’opera di Gesù sfocia nella sua consumazione. Tre elementi della risposta meritano di attirare la nostra attenzione: oggi, con me, nel paradiso.
“Oggi”: oggi la morte appare ormai vinta. il Padre opererà quella salvezza che faceva sghignazzare i nemici di Gesù: è l’oggi definitivo della salvezza. Oggi io, il Signore, entro nella morte, perché tutti abbiano la vita. “Con me”: colui che ripone la sua speranza in Gesù, può essere sicuro della misericordia di Dio. A partire dalla comunione della morte, egli si vede chiamato alla comunione di vita con lui. Il buon ladrone diventa il portavoce della speranza e il modello di tutti gli uomini che si trovano di fronte alla morte. Il bene proposto è il dono più grande che si possa concepire: “essere con lui”, nella sua vita e nella sua gloria. Tu sarai con me, perché io, l’Emmanuele, sono con te. “Paradiso”: designa la dimora celeste dei giusti, il luogo della beatitudine, della comunione con Gesù. Il morire in comunione con Gesù porta, in virtù della sua promessa, alla comunione con lui nella vita. E questo è il Paradiso, perché io sono la tua vita.
Bibliografia consultata: Trilling, 1975; Fausti, 2011.