Meglio conosciamo il coronavirus, più l’obiettivo del vaccino anti-Covid si fa concreto. Probabilmente non ancora così imminente come le trionfali parole del Ministro della Salute Roberto Speranza lasciavano presagire. Ma forse, parafrasando l’astronauta Neil Armstrong, mai come in questo caso un passo avanti della scienza è un balzo gigantesco per l’umanità.
La comunicazione l’aveva data tra squilli di trombe il titolare della Sanità. «Ho sottoscritto un contratto», l’annuncio, «per l’approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea». Un accordo firmato anche dagli omologhi di Germania, Francia e Olanda, con cui il Ministro-nomen-omen aveva lanciato la Inclusive Vaccine Alliance.
A sviluppare la terapia è stato il Jenner Institute dell’Università di Oxford, con un contributo significativo da parte della Irbm di Pomezia. È bene però precisare subito che, al momento, il vaccino non esiste ancora.
Tuttavia, l’azienda biofarmaceutica che se ne è assicurata l’esclusiva, l’anglo-svedese AstraZeneca, ha il prodotto in fase di sperimentazione più avanzata. «Rispetto agli altri gruppi che lavorano sullo stesso obiettivo hanno almeno sei mesi di vantaggio» ha affermato il medico Walter Ricciardi, consulente del dicastero. «Anche se in questo momento nessuno può dire al 100% che arriveranno in fondo, se lo faranno potremo avere le prime dosi alla fine di quest’anno». Precisamente, tra novembre e dicembre, anche se verosimilmente le prime somministrazioni avverranno all’alba del 2021.
Inizialmente, però, queste dosi non basteranno per tutti. Perciò, come ha precisato lo stesso Ricciardi, «i primi a ricevere il vaccino saranno i lavoratori della sanità. E poi le persone a rischio, per età o perché colpite da certe patologie, e le forze dell’ordine». Lo ha confermato anche Speranza, aggiungendo che «il vaccino lo paga lo Stato e verrà distribuito gratis».
Di norma, la procedura per lo sviluppo di un farmaco dura almeno 2-3 anni. Tuttavia, nel caso specifico le agenzie mondiali hanno autorizzato un iter più rapido, senza comunque derogare minimamente alle esigenze di sicurezza.
Così, tra marzo e maggio si sono svolti gli studi clinici di fase 1, volti a capire se il potenziale vaccino abbia effetti tossici. È stato coinvolto un migliaio di volontari, mentre altri 10.000 parteciperanno alle fasi 2 e 3, che permetteranno di valutare l’effettivo potere antivirale della terapia.
Per arrivare al vaccino anti-Covid, i ricercatori hanno utilizzato la versione depotenziata di un virus simile a quello che si intende debellare. Un microrganismo inattivo, ma dotato del materiale genetico in grado di generare una specifica proteina, nota come Spike. Una molecola indispensabile per il Covid-19, poiché gli consente di legarsi all’enzima Angiotensin Converting Enzyme 2 (ACE2), che è come un cavallo di Troia fisiologico. Un “traditore” che fornisce al nemico una porta d’ingresso nelle cellule umane.
L’alterazione genetica stimola la risposta immunitaria, inducendo la produzione di anticorpi destinati a distruggere il patogeno. E, dal momento che il sistema immunitario possiede una sorta di memoria, se il vero coronavirus dovesse infettare l’organismo questi anticorpi potranno prevenire la malattia.
In pratica, è come se si disegnasse un bersaglio sulla schiena del virus e si addestrasse uno speciale reparto militare a riconoscerlo. In caso di attacco, la reazione dei difensori sarebbe immediata e la potenza di fuoco contro gli aggressori devastante.
Di recente, poi, alcuni scienziati dell’Università Federico II di Napoli e dell’Ateneo di Perugia hanno individuato un secondo possibile obiettivo, di nome neuropilina-1 (NRP1). Si tratta di un recettore proteico che a sua volta si può legare alla proteina Spike, agevolando in modo analogo ad ACE2 il compito dell’invasore.
Lo studio non è stato ancora sottoposto a revisione paritaria, il che significa che è ancora suscettibile di modifiche. Tuttavia, i suoi risultati si accordano con quelli di un’altra ricerca – anch’essa ancora in attesa di peer review. La quale ha evidenziato come, bloccando il legame tra il virus e il recettore NRP1, era possibile bloccare l’infezione in laboratorio.
Va detto che, secondo gli studiosi italiani, difficilmente questa scoperta porterà a un approccio terapeutico, almeno per pazienti gravi. «Gli anticorpi del siero iperimmune ottenuto da pazienti guariti da Covid-19 sono molto più efficaci nell’inibire il legame tra Spike con Ace2», la loro ammissione.
Eppure, un innegabile vantaggio c’è. Le sostanze investigate sono infatti «molecole endogene o farmaci già ampiamente utilizzati da molti anni, con un consolidato profilo di sicurezza». Questo significa che si potrebbero ridurre drasticamente i tempi dei trial clinici, così da poter utilizzare immediatamente questi medicinalinei pazienti affetti da coronavirus.
Inoltre, queste pubblicazioni sono il segno che il progresso e le scoperte scientifiche non si fermano. Ed è un’innegabile soddisfazione quando alcune di loro – e in un campo così importante – portano (anche) la firma delle eccellenze italiane.
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