Cupi a notte canti suonano da Cosenza su ’l Busento, cupo il fiume gli rimormora dal suo gorgo sonnolento. Su e giú pe ’l fiume passano e ripassano ombre lente: Alarico i Goti piangono, il gran morto di lor gente.
Così ha inizio una poesia del Carducci; e come dimenticare un brano poetico così affascinante e nel contempo ricco di pathos e mistero.
Quello della sepoltura di Alarico, re dei Goti, avvenuta nel 410 d.C. è uno dei grandi e irrisolti misteri, e per questo ancora più affascinante, della storia ma soprattutto di quella archeologia che è stata caratterizzata, nel corso dei secoli, dagli studi sul re “barbaro” e ancor più dalla spasmodica ricerca della sua sepoltura e, quindi, del suo tesoro. Certamente in questo panorama di ricerca, scientifica e tecnica da un lato ma anche approssimativa e “laica” dall’altro, svetta la presenza di un luogo, Cosenza, la città in cui secondo la tradizione sarebbe stato inumato il re dei Goti. Fiumi di inchiostro sono stati versati su Alarico, sia per l’importanza che i Goti hanno avuto nella caduta dell’impero romano e nel corso delle invasioni barbariche e sia per l’aura leggendaria che si è creata attorno alla figura di Alarico già a partire dalla sua morte; quella del re dei Goti è una “leggenda” vecchia di 1500 anni ma ancora viva e rappresenta una delle tante sfide che gli studiosi di storia sono chiamati, periodicamente, ad affrontare attraverso la puntuale conferma o la rituale smentita di fonti, credenze, miti.
Sicuramente in questo contesto di studio e ricerca il soggetto che emerge in modo importante, grazie alla sua storia e ai suoi trascorsi, è la città di Cosenza che, pur ricevendo fama dalla figura di Alarico, trae le sue origini e la sua importanza da ben altra storia se già Ecateo di Mileto, storico e geografo greco vissuto a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., nella compilazione dell’elenco di città presenti in Calabria menzionava la città di Kossa già esistente a partire dall’VIII secolo a.C.
Il nome di Cosentiam, il nome romano della città, viene riportato anche nella lapide di Polla, un'epigrafe della prima metà del II sec. a.C., incisa in latino su una lastra di marmo il cui nome deriva dal luogo del rinvenimento, avvenuto nel territorio di Polla in provincia di Salerno. Il reperto è la più importante testimonianza scritta sulla strada romana che univa Capua a Reggio Calabria, la via Popilia, che attraversava Cosenza che distava da Capua CXXIII miglia (circa 182 km) per come riportato nell’iscrizione.
Cosenza, capitale dei Bruzi – antico popolo di pastori di origine e lingua Osca inizialmente sottomesso ai Lucani e successivamente affrancatosi da essi (come ci riferisce Strabone) con una rivolta avvenuta molto probabilmente intorno all’anno 356 a.C. (per come riportato dall’autore romano Gneo Pompeo Trogo) – definita urbs magna da Appio Claudio Cieco, conserva nel suo antico passato tutta la sua importanza che, nel corso dei secoli, ha conservato e tramandato anche con eventi e personaggi; tuttavia la sua fama è legata in modo indissolubile ad Alarico e alla sua morte e sepoltura avvenute nei pressi della città dei Bruzi.
Giordane, uno storico bizantino del VI secolo d.C., con la sua opera De origine actibusque Getarum, conosciuta anche come Getica, è l’unica fonte che riferisce della morte di Alarico nei pressi di Cosenza – avvenuta durante il ritorno da Reggio Calabria dove era stato impossibile l’attraversamento dello stretto e la prosecuzione del viaggio verso l’Africa – e della sua sepoltura nel greto del fiume Busento. Quanto riportato nel suo racconto è divenuto l’origine del mito della sepoltura del re goto, con tutto il suo tesoro e da lì l’inizio della febbre dell’oro dei Goti, simile alla febbre dell’oro di fine ‘800 negli Stati Uniti o alla frenetica ricerca dell’El Dorado in America Latina alimentata a partire dalla scoperta dell’America e della sua colonizzazione o a quella dei tesori dei faraoni in Egitto o a quello dei Templari in Francia; non c’è, dunque, da meravigliarsi se da secoli si susseguono le ricerche sulla tomba e sul tesoro dei Visigoti in cui storia, archeologia, mistero e mito si fondono dando vita ad argomentazioni non prive di delusioni, fallimenti e polemiche.
Alcune delle ricerche di cui si ha memoria furono condotte nel ‘700 dalle autorità del tempo, poi nell’800 addirittura con la presenza di Alexander Dumas che ne riferisce una breve cronaca, durante il periodo fascista anche con l’interesse di Himmler che per l’occasione giunse a Cosenza, poi negli anni ’60 fino ai giorni nostri, basando ogni volta le ricerche sull’individuazione fatta da astrologi, sensitivi, studiosi o ricercatori improvvisati e individuando il sito nel letto del fiume Busento o sulle colline adiacenti o in una delle chiese della città dei Bruzi o nei centri abitati limitrofi.
Ai giorni nostri non mancano le polemiche in ambito scientifico, culturale e tecnico nei confronti del tentativo, posto in essere dall’attuale sindaco, di ridare nuovo impulso alle ricerche questa volta con il supporto della moderna tecnologia senza che ciò appaia, agli occhi dei saggi, come qualcosa di diverso rispetto ad analoghi stimoli alla ricerca archeologica storicamente avvenuti in tutto il mondo; gli ambienti della presunta locale intellighenzia universitaria, non senza una chiara influenza politica, hanno posto una battuta di arresto a tale tentativo in modo evidente, donando nuova linfa anche a dubbi e perplessità di studiosi locali e internazionali sull’attendibilità del racconto di Giordane, reputando leggenda il seppellimento di Alarico con il suo tesoro nei pressi del fiume Busento e sostenendo che i Goti non avrebbero mai sepolto un tesoro fonte di finanziamento per spostamenti e guerre.
Senza voler obiettare sulle considerazioni pro o contro l’unica fonte storica disponibile, non si può fare a meno di ricordare che alcune delle più sensazionali scoperte archeologiche della storia sono state realizzate seguendo alla lettera antiche fonti scritte o orali il cui contenuto era ritenuto mitico e leggendario pur tra l’avversione degli addetti ai lavori; è quanto accaduto, per menzionarne qualcuna, con l’Iliade di Omero e la scoperta di Troia da parte di Schliemann o con la scoperta di Machu Picchu da parte di Augusto Berns, avventuriero e trafficante tedesco, il quale sarebbe il vero scopritore della città perduta e che, a partire dal 1867, iniziò a depredarne le ricchezze col benestare del governo peruviano; Bingham, che si basò esclusivamente su tradizioni orali e che era all’oscuro di tale particolare (venuto alla luce solo nel 2008), scoprì nuovamente la città e fu colui che divulgò la scoperta, solo 44 anni dopo Berns, mettendola a disposizione della cultura mondiale.
Secondo Giordane i Goti dopo aver deviato le acque del fiume Busento scavarono una grande buca dove calarono il re, sigillato tra due scudi, insieme al suo cavallo e al tesoro e, pur richiamando il racconto analoghi episodi avvenuti in epoche e culture differenti, non può avere l’effetto di accantonare studi e ricerche che potrebbero estrarre in modo concreto, dalle nebbie della storia e del mito, la figura del re dei Visigoti e della sua sepoltura; d’altra parte il risultato può essere teoricamente e potenzialmente raggiunto per mezzo di esplorazioni archeologiche sistematiche di lungo periodo.
Al di là della tipologia e composizione del tesoro e della sua consistenza, quantificabile in 25 tonnellate d’oro e 150 d’argento oltre a monili, camei, gioielli, provenienti dal sacco di Roma ad opera dei Goti, dello stesso avrebbe fatto parte la Menorah, il candelabro a sette bracci costruito da Mosè su indicazione di Dio, simbolo di Israele e della religione ebraica, alimentata solo con puro olio di olive schiacciate e la cui etimologia deriva dalla radice or cioè luce, il cui disegno originale, la forma, le misure, i materiali e gli altri particolari che dovevano costituirla si trovano per la prima volta nella Torah, nel libro dell'Esodo; essa fu sottratta dall’imperatore Tito durante il saccheggio e la distruzione del tempio di Gerusalemme (che lo storico Giuseppe Flavio paragona a un sole che risplende in cima ad una montagna di neve) ad opera dei Romani, e ne viene riportata una raffigurazione nell’arco di Tito che sorge sulla via sacra nei fori imperiali a Roma.
Varie, tuttavia, sono le teorie sulla reale sorte che toccò al simbolo dell’ebraismo; fonti rabbiniche certe riportano che venne collocata nel Templum Pacis (posto all’interno dei fori imperiali e denominato foro a partire da Costantino, appunto foro della pace, sorgeva accanto a quello di Augusto) dove restò almeno fino all’incendio dello stesso nel 192 d. C. durante l’impero di Commodo; da quel momento si perde ogni traccia certa e non si sa se sia sopravvissuta a quell’incendio, oppure sia stata collocata nei palazzi imperiali sul Palatino – che comunque furono tra i primi ad essere saccheggiati dai Goti – e, pertanto, se sia stata trafugata dagli stessi nel 410 d.C. o dai Vandali di Genserico nel 455, se sia stata ipoteticamente trasferita a Cartagine o a Costantinopoli o se, addirittura sia finita sulla montagna di Blanchefort a circa 10 km da Rennes le Chateau trasportata lì dagli stessi Visigoti, che prima avevano occupato la linguadoca con Tolosa come loro centro, dopo la sua conquista da parte dei Franchi. Qui, in ogni caso, si cammina lungo una strada che da un lato trova la concretezza delle scoperte mentre dall’altro lato lascia la storia facendoci addentrare nella leggenda, come quella riguardante un suo presunto collocamento nella Basilica di San Giovanni in Laterano o nei sotterranei del Vaticano benchè su quest'ultimo sito si dovrebbe discutere separatamente.
Possiamo affermare, a questo punto, che il valore leggendario è da attribuire non tanto alla tradizione orale quanto a scoperte inattese e, per questo, dal forte impatto innovativo e dal loro carattere sorprendente; se non v’è nulla di più concreto e reale di una scoperta archeologica, infatti, è altrettanto vero che l’interpretazione di fonti, indizi, leggende e miti è, a volte, oggetto di dibattiti polemici negli ambienti scientifici, come nel caso della ricerca della sepoltura e del tesoro di Alarico in terra di Calabria, che portano ad uno sterile ostracismo anziché ad un proficuo e pacato confronto.
Se un’altra consistente parte del tesoro dei Visigoti venne rinvenuta fortuitamente nel 1858 in Spagna a Guarrazar, a circa 15 km da Toledo, per giunta interrato in una necropoli contrariamente a quanto sostenuto da alcuni studiosi per la tomba del re dei Goti a Cosenza, allora non si comprende il perché si debba escludere a priori la possibilità che il racconto di Giordane sia attendibile, che la tomba di Alarico si trovi realmente nei pressi di Cosenza e che il tesoro sia stato interrato insieme al suo re.
Se ancora oggi, in Spagna come altrove, vengono rinvenuti gioielli e pietre preziose di inestimabile valore, appartenenti al tesoro dei Visigoti, si è certi che scoperte archeologiche di questo tipo spesso esprimono solo una parte del loro lungo tragitto, quello dalla terra alla storia, e chissà che anche la Menorah con il tesoro di Alarico non possa riaffiorare e passare dalla terra alla storia.
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