Violenza donne: Nelle case rifugio i bambini raccontano paura dei padri violenti
Lella Palladino, presidente delle Donne in rete contro la violenza, ha ricordato i numeri del lavoro storico della rete
"Siamo presenti in 18 regioni, abbiamo più di 115 centri antiviolenza, tante case rifugio e dai dati Istat risulta che 1 donne su 2 che chiede aiuto si rivolge alla rete D.i.Re. Accompagniamo ogni anno fuori dalla violenza 24mila donne in media". A parlare con DireDonne in vista della giornata dedicata al contrasto della violenza sulle donne, il prossimo 25 novembre, è Lella Palladino, presidente della rete D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) che ha ricordato i numeri del lavoro storico della rete, ma anche la specificità del metodo femminista adottato. "Ci tengo a marcare la differenza tra quello che facciamo e il calderone del welfare. Un centro antiviolenza femminista gestit da donne- ha spiegato Palladino- ha come fine la trasformazione culturale da cui trae origine la violenza maschile contro le donne.
Un centro antiviolenza è un luogo in cui si fa politica. Lavoriamo da trent'anni sul territorio proprio per agire dal basso e trasformare la cultura dominante che è ancora sessiste e patriarcale". Le donne in un centro antiviolenza della rete D.i.Re. trovano "la possibilità di raccontarsi- ha spiegato ancora Palladino- un ascolto empatico e non giudicante e immediatamente capiscono di aver subito violenza in quanto donne, non perché incapaci o sfortunate. Offriamo consulenza psicologica, legale e un percorso di riappropriazione dell'autonomia, anche con un orientamento al lavoro" e un percorso per favorire "l'autonomia alloggiativa. Come rete D.i.Re. abbiamo molto insistito sulla violenza economica perché ostacola il percorso di uscita" di queste donne.
"Tutte le donne possono entrare nella violenza- ha ribadito la presidente di D.i.Re– ma quelle che hanno avuto difficoltà nel lavoro hanno più difficoltà ad uscire". Sui fondi e finanziamenti per i centri antiviolenza Lella Palladino ha parlato di "effetto paradossale" nella gestione, per problemi legati alla "disomogeneità tra le regioni, perché i fondi della legge 119 del 2013, in relazione all'articolo 55 bis- ha ricordato- vengono distribuiti attraverso le regioni e non arrivano ai centri antiviolenza né negli stessi tempi, né nelle stesse modalità. Non sempre la gestione è trasparente e chiara. I 30 milioni appena annunciati sembrano tanti, ma sono una goccia nel mare del bisogno e c'è stato anche un fiorire di strutture improvvisate che hanno avuto facile accesso ai fondi, mentre molti nostri centri affollati e storici hanno avuto un peggioramento. Per questo molte nostre strutture vanno avanti grazie alle nostre attiviste politiche e alla loro motivazione".
Passando all'agenda politica nazionale sul ddl Pillon la presidente di D.i.Re. ha detto che "è solo una tregua, ma da un punto di vista tecnico 'la legge chiusa in un cassetto' non ci rassicura e quello che questo disegno prevedeva non è morto. Con il convegno di fine marzo a Verona- ha evidenziato- si è tornati a mettere in discussione l'autodeterminazione delle donne. Basta pensare che il senatore Pillon sarà relatore in un corso di formazione per avvocati a Parma". Sul Codice Rosso, compresa la proposta della vicepresidente della Camera dei deputati Mara Carfagna sull'arresto in flagranza di chi viola il divieto di avvicinamento, Palladino ha sottolineato che "la legge presenta aspetti positivi come il revenge porn o la violenza assistita, ma tante cose non vanno: non sempre è positivo ascoltare subito una donna" e altro aspetto negativo è "l'affollamento delle Procure. Il nostro Paese non ha bisogno di nuove leggi- ha detto- le donne vengono spesso vittimizzate nei percorsi giudiziari; il penale e civile difficilmente colloquiano e avremmo bisogno che la Convenzione di Istanbul venisse applicata. Magari arrestiamo l'uomo e il giorno dopo non c'è la convalida del fermo: è la magistratura- ha ribadito- che deve cambiare passo".
Sul tema dell'alienazione parentale, che colpisce tantissime madri che hanno subito violenza, "siamo state le prime a capire il problema che portava il Pillon su questo- ha evidenziato la presidente di D.i.Re.- ma anche senza il Pillon si è sdoganata attraverso le Ctu (consulenze tecniche d'ufficio) la possibilità di introdurre l'alienazione parentale". Uno strumento che di fatto "obbliga i bambini a vedere i padri. Chiediamo che non sia possibile che in ambito giudiziario, i servizi o gli operatori sanitari mettano sullo stesso piano una donna che è nel ciclo della violenza con un uomo che l'ha agita e che ha commesso il reato di esporre i bambini alla violenza assistita. Non è pensabile che entrambi siano sottoposti alla stessa valutazione genitoriale anche perché quelle donne si trovano in un momento temporaneo di fragilità e magari hanno anche una debolezza economica. Il tutto a scapito dei bambini che nelle case rifugio ci raccontano la paura dei padri. Per questo quando viene proposto lo spazio neutro d'incontro diciamo che i bambini hanno chiesto in tutti i modi di non vedere i padri. Non siamo solo dalla parte delle donne, ma anche dei bambini".