La casa è un luogo dove una relazione si concretizza, si pongono le basi per un futuro insieme e per una crescita comune. E’ il luogo degli affetti, è il nostro nido, è un porto sicuro anche quando il mare è in tempesta. “Ci vediamo a casa” una frase che ripetiamo tutti i giorni, che rafforza l’unione e la certezza del ritorno.
Nei casi di violenza nelle relazioni che definiamo negative, la casa diventa il luogo della paura, dei ricordi negativi, delle “botte”, del pianto, delle notti insonni.
Si ha paura di denunciare per molti motivi. Perdere la sicurezza economica, fare del male ai figli. Ma anche per vergogna, per non essere criticati o per amore, un amore malato che non si ha il coraggio di riconoscere. Noi psicologi ci troviamo spesso a supportare le vittime attraverso un percorso di uscita dalla relazione negativa e di rinascita psichica e sociale. Dovremmo invece avere un occhio più attento alla prevenzione, cioè arrestare l’abuso fisico e psichico all’inizio dei primi episodi definiti dalla stessa vittima “banali e senza alcun rilievo”.
Dopo i primi episodi di violenza si vive un periodo che definiamo “di calma apparente” dove la vittima s’illude che nonostante tutto il partner la ami e i suoi scatti d’ira vengono attribuiti alla stanchezza lavorativa.
La relazione va avanti e le vittime affermano che “per il bene dei figli si è disposti a sopportare qualche schiaffo”.
La persona che subisce violenza ne parla poco sia in famiglia sia con gli amici. I quali però sono consapevoli delle difficoltà nel rapporto di coppia ma non hanno il coraggio di affrontare il discorso con la vittima.
Si può denunciare? Certamente! Anche il vicino di casa può denunciare, mantenendo la riservatezza può allertare le forze dell’ordine e denunciare ciò che ha visto o sentito. (art. 333 cod. penale).
Può denunciare anche chi apprende degli episodi di violenza attraverso uno sportello di ascolto, o da parte d’insegnanti e dirigenti scolastici, e ciò viene definito “dubbio sufficientemente fondato”; e verranno quindi allertati i servizi sociali del territorio contestualmente all’autorità giudiziaria.
In questi due anni di pandemia il fenomeno degli abusi domestici si è amplificato a causa della costrizione in casa di tutti i componenti del nucleo familiare. La mancanza di spazi e di relazioni all’esterno con amici e conoscenti ha esasperato quelle dinamiche familiari già a rischio di rottura. Ma non si può certo dire che è colpa della pandemia se il partner è diventato violento.
La conflittualità era già presente prima del lokdown, ma era silente e si poteva manifestare soltanto nei pochi momenti di convivialità, a cena o nei giorni festivi durante i quali la famiglia si riuniva, libera da impegni scolastici e lavorativi.
La violenza fisica e verbale rappresenta il fallimento di un rapporto e se non si agisce subito si creerà un circolo vizioso che porterà a fenomeni gravi e irreversibili.
L’essere umano, per sua natura, non nasce violento ma è forgiato da tutto ciò che apprende. Se al bambino si insegna ad amare lui amerà; mentre se gli viene insegnato il rispetto, lui rispetterà; se non gli viene insegnato nulla imiterà i modelli familiari. La prevenzione dei comportamenti violenti inizia in famiglia, per poi continuare a scuola. Una famiglia sana è una famiglia che mette al primo posto la cultura del rispetto.
Rispettare l’altro, aiutare chi ha bisogno, dividere ciò che si ha con gli altri, ascoltare chi è più anziano e più saggio, collaborare in tutte le attività domestiche, rispettare le divergenze, non prevaricare.
Se non costruiamo la cultura del rispetto e dell’affettività nei nostri figli, loro andranno incontro al mondo digiuni, anaffettivi, arroganti, arrabbiati in cerca di un capro espiatorio che, suo malgrado, si innamorerà dell’esteriorità e scoprirà solo più tardi l’analfabetismo affettivo (privo cioè di empatia, che non sa controllare le proprie emozioni) che alberga nell’aggressore.
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