Spettacoli

VIS a VIS su Netflix. Spin-off matricida ammazza la sua stessa serie

Vis a Vis. La serie spagnola sembrava conclusa, e meglio sarebbe stato. La bulimia gioca brutti scherzi. Stavolta non è quella dello spettatore, risucchiato in una di quelle vivifiche spirali di binge watching (“Un’altra! Un’altra sola e basta, lo prometto…“) senza fine. Bensì quella dei produttori/ideatori della serie: non volevano più smettere.

La serie, su Netflix, è Vis A Vis, spagnola, creata nel 2015 dal prolifico genitore de La Casa di Carta, Alex Pina, e felicemente giunta senza incidenti, anzi col crescente successo guadagnato sul campo, alla sua 4ª stagione e ad una appagante, coerente ancorché stentorea, conclusione.

Ma, dicevamo, l’ingordigia fa brutti scherzi, e qui ne ha fatto uno davvero da prete. Tale che il sottoscritto spezzerà questa sua “raccomandazione” in due tranche. Di segno opposto.

Nulla di già visto con Vis a Vis

Le 4 stagioni precedenti. Chi non le ha ancora viste lo faccia, chi le ha viste spero sia d’accordo con me. Qui non siamo in presenza di un remake o scopiazzamento europeizzato di Orange is the new black, come tutto dall’esterno farebbe pensare. Non è il solito dramma carcerario all’americana magari bello ma stravisto: crudezze, linguaggio esplicito, girone infernale, tomba di qualunque sentimento. Quella roba c’è, ma con una libertà sulla quale la Spagna comincia a far scuola. Cioè inestricabilmente – ma armoniosamente – mischiata a momenti rilassati, addirittura festosi, onirici, poetici.

Un cocktail spudorato, che può far storcere la bocca ai puristi del cinema penitenziale oltre che penitenziario, ma conquista chi ama gli accostamenti audaci purché non gratuiti. Il ritmo non si prende pause, la confezione è curatissima, i dialoghi credibili; anche l’amore omosex, qui predominante, è proposto finalmente con naturalezza, senza ideologismi, senza prediche di politicamente corretto. C’è invenzione, c’è spiazzamento; ma c’è umanità. Qualcosa del fumetto, ma con introspezione; un viaggio nella paranoia carceraria, ma con un occhio di comprensione e una chiave di lettura compassionevole anche per gli atteggiamenti e i personaggi più estremi.

I protagonisti della serie

Protagoniste (e protagonisti) impeccabili, talvolta da applauso a scena aperta. Maggie Civantos è una Macarena da immedesimazione, che nasce candida e spaesata per poi evolvere, seppure faticosamente, in qualcos’altro. Najwa Nimri (vecchia conoscenza de La casa di carta) è una Zulema ispirata, stregonesca, posseduta, piena di sfumature; forse la vera protagonista, indimenticabile. Ma a fianco a loro scorre una miriade di figure, tutte importanti e tutte perfettamente disegnate, dagli sceneggiatori come dagli interpreti. Come non godersi la Saray Vargas gitana di Alba Flores (anche lei già vista e amata ne La casa…), o la velenosa Anabel, o lo scaltro e viscidissimo dottor Sandoval, o lo stropicciato umanissimo ispettore Castillo… E potremmo continuare a lungo.

Poi però purtroppo qualcuno ha pensato bene di regalarci un’ulteriore stagione. E per allegria ha fatto la pensata di cambiare registro. In questi giorni è arrivata la protesi El Oasis.

Una sorta di Bonnie & Clyde o meglio Thelma & Louise

Sulle prime era stata per l’appunto annunciata come spin-off, che nel linguaggio degli addetti è una creatura dotata di vita propria. Ma poi – per leggerezza o per motivi di richiamo – viene ripresentata come 5ª stagione.

Stando attenti a non fare spoiler, ci limiteremo a dire che Zulema e Macarena qui sono le protagoniste assolute; tutto il resto – carcere femminile e sue occupanti – scompare. Ma, per gli autori, fuori dal carcere deve voler dire fuori di testa: via ogni realismo, bando ai rovelli interiori, eliminazione delle sfumature per decreto. E va in scena una sarabanda, un balletto puramente figurativo, un lunapark on the road di luci colori botti, cattivoni e schizzati, continui sbalzi temporali. Un Bonnie & Clyde o meglio Thelma & Louise survoltato e speziatissimo, con situazioni tanto grottesche e inverosimili da farti rapidamente perdere ogni attaccamento alla storia e alle sue eroine e desiderare un finale qualsivoglia, tanto siamo ormai anestetizzati e non sentiremo dolore.

Perché? Perché rovinare quel cesello di caratteri, quella suspense legata all’umanità dei personaggi e quindi a quel magico miscuglio di affetto e complicità che tiene lo spettatore avvinto, che arriva a tratti a farlo parteggiare per il male contro il bene (uno dei Misteri che fanno grande il cinema-cinema)?

Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, dice il Poeta. Anche a costo di negare ad una serie bella e sfrontata di lasciare sul palato del suo pubblico un buon retrogusto. Se invece volete mantenerlo, ascoltateci: non guardate lo spin-off.

Mario Conti

Eternamente dibattuto, fra il versante tecnologico e quello umanistico, che lo vede fotografare, viaggiare, condurre con la moglie Grazia presso la poliedrica ELI due format pubblici: Hortus Conclusus - un cenacolo di reading letterari, e ScrittoMisto - scrittori quasi per gioco si sfidano intorno a una traccia provocatoria. Vive fra Roma e Napoli, dove è nato, una sola città caotica sembrandogli troppo poco.

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