Cronaca

Volontariato: Silvia Romano e quei ragazzi che salvano il mondo

La notizia è rimbalzata su tutti i mezzi di comunicazione. Silvia Romano, 23 anni, volontaria milanese, dell’associazione Onlus Africa Milele, è stata sequestrata in Kenya. Non è una novità. Il rischio che bande armate di ispirazione islamica o semplici criminali comuni possano rapire turisti, professionisti o anche volontari stranieri, in Africa, per chiedere un riscatto, è sempre presente, anche se in misura molto ridotta rispetto alla quantità di persone straniere che viaggiano per quei paesi. In questo caso la polizia locale sta abbandonando la pista islamista, per cercare tra i semplici delinquenti, i responsabili. I quattordici fermati dalle autorità locali hanno rischiato il linciaggio della popolazione. Silvia viveva a Chakama un piccolo villaggio a 70 km da Malindi, dove sorgono le ville dei Vip: Silvio Berlusconi, Naomi Campbell, Fernando Alonso, Simona Ventura, Paolo Bonolis, Heidi Klum, Eva Herzigova. C’é anche la casa di Flavio Briatore, che ora è diventata un Resort a 5 stelle “The Lion in the Sun”. Affittarlo tutto per una settimana costa 45.000€, volo escluso. Un bel contrasto in pochi chilometri. La più sfacciata opulenza accanto alla più terribile miseria. Silvia aveva fatto una scelta diversa e si era fatta apprezzare dalla comunità per il suo lavoro assistenziale coi bambini orfani.

Silvia Romano si occupa di progetti per l’infanzia, ovvero di accogliere, educare, aiutare quei bambini che sono rimasti orfani e privi di un sostegno economico. È tornata in Kenya agli inizi di novembre, dopo averci già lavorato per diversi mesi, per partecipare al progetto di cooperazione internazionale della sua Onlus, una organizzazione senza fini di lucro, per chi non lo sapesse. Subito contro di lei si sono scatenati sul web “i soliti noti”. Gli sdoganati. Coloro che una volta si sarebbero vergognati di esprimere tanto odio e malanimo e che invece, grazie a Facebook e a Twitter, da qualche tempo, non risparmiano insulti, cattiverie, bassezze a chiunque si faccia promotore di iniziative che loro chiamano “buoniste” e che si rivolgono agli emarginati, ai più deboli, ai sofferenti. Come se avvertissero nella generosità qualcosa di pericoloso, qualcosa che li metta in stato di accusa per il loro egoismo e la loro insensibilità verso chi sta peggio.

Il florilegio delle accuse mi fa schifo ma lo devo riportare per dovere di cronaca. Omettendo i nomi degli autori, che però spero la polizia postale tenga in considerazione, in particolare quando si passa dalle critiche (ammissibili) agli insulti, intollerabili e inaccettabili in un consesso civile.

L’accusa più diffusa: Chi glielo ha fatto fare? Se l’è cercata!

Gianni scrive: “Non dirò che se l’è cercata, però è inconfutabile il fatto che il rischio di rapimento in alcune zone dell’Africa è altissimo. Penso ai genitori anche, che chissà quante volte gli avranno detto di non andare, tutti quelli che commentano qui si opporrebbero ad un viaggio del genere per un loro figlio, ipocriti

Olegna: “ma che cazzo andate in paesi instabili e inclini alla guerra???? I volontari fateli in Italia, che pure qua abbiamo tante emergenze a cui dedicarsi. Tante persone che hanno bisogno di aiuto, italiani e non”.

Anna Paola scrive : ”Non capirò mai questi volontari che fanno del bene all’umanità. Lautamente retribuiti. E i volontari che lavorano senza nessun compenso?  Sono tutti volontari, sono tutti uguali????” Dove abbia letto che Silvia fosse lautamente retribuita resta un mistero.

Spesso mi viene da pensare che una volta tutto questo non l’avremmo visto e sentito, perché solo da quando esiste Facebook, viene data a tutti la opportunità di esprimersi. Giusto ma esprimersi non sapendo di che si parla non è un merito o un un fatto positivo, è un errore, un rischio. Qualcuno potrebbe pensare che sono opinioni e non stupidaggini, come in realtà invece spesso è dimostrabile. Non darò degli stupidi a questi critici di Silvia ma sono certamente degli ignoranti, questo si. Gente che parla senza sapere, senza avere il quadro esatto della realtà e delle responsabilità.

Facebook ha dato la possibilità di parlare anche a chi non sa niente

Chi legge e s’informa sa che il Kenya non è uno stato in guerra. Come in ogni parte del mondo ovunque, a Zurigo o a Ibiza, in Nigeria o a Calcutta, ci sono luoghi pericolosi e altri più o meno sicuri. Il villaggio in cui si trovava Silvia, nella contea di Kilifi, non è un luogo ad alto rischio. L’avrete visto in tv, era un insieme di modeste capanne, abitate da poveri agricoltori. Uno della banda ha studiato le mosse di Silvia a lungo, la polizia locale l’ha scoperto dopo. L’hanno rapita per ricavarne soldi. Altrove le avrebbero scippato la borsa o l’orologio o l’avrebbero attesa fuori della banca per rapinarla, lì possono solo rapire una straniera, perché per la popolazione povera del Terzo Mondo uno straniero è comunque un ricco, anche se per noi può sembrare strano: “un portafoglio che cammina”! Ogni straniero è una opportunità di guadagno, di sopravvivenza, vuoi per l’elemosina che ti dà o per la mancia che elargisce per qualsiasi favore che riceve. Fargli da guida diventa un privilegio. Chi viaggia molto sa che questo accade dappertutto, anche nelle zone povere della vecchia Europa. Domandatevi piuttosto chi ha ridotto così il Terzo Mondo, chi ha la responsabilità dello schiavismo, dell’occupazione coloniale, dello sfruttamento delle miniere dei preziosi giacimenti di minerali africani e sud americani. Domandatevi come sia possibile che otto uomini nel mondo posseggano 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone (Rapporto Oxfam). Secondo le Nazioni Unite i paesi ricchi consumano da soli dieci volte più materie prime dei paesi poveri. Questo sistema ci sta portando all’esaurimento delle risorse della Terra. Pochi popoli avranno consumato tutto quello che c’era da consumare lasciando agli altri solo fame e disperazione. Ma da noi c’è chi pensa che la povertà sia una sfortuna, un marchio d’infamia che tocca a certi popoli e che alla fine si possa cancellare voltandosi dall’altra parte, perché comunque “non è un problema nostro”.

Trovo altri commenti su Facebook:

“Per me è un suo problema, non è cattiveria.”

Se c’è andata non di certo gratis! Se voleva fare volontariato, poteva farlo benissimo in Italia, ora ha creato solo problemi”, è il commento di uno di questi signori.

Ennesima oca giuliva, poteva stare a casa e aiutare gli italiani

“Non capisco cosa ci vadano a fare”

“Non mi fa pena”

Quanto ci costerà farla tornare a casa sua per sempre ma con obbligo di dimora e firma?

“Lasciatela lì, se è lì che è voluta andare”

“Tenetevela se l’è cercata!”

 “Spero che quei selvaggi le insegnino le buone maniere sessuali”

Commenti a briglia sciolta che denotano anche un’infinita bassezza morale. Dove si arriva quasi ad augurarle lo stupro. Vedo in questa serie di critiche una sorta di ribellione all’insegnamento cristiano, che dovrebbe essere caratteristico per un paese cattolico, o no? E proprio da parte di coloro che, in altre occasioni, vorrebbero difendere la cristianità di facciata, mantenendo i crocefissi sulle pareti delle scuole o pretendendo l’ora di religione o difendendo il Natale e le feste cattoliche. Invece poi sono quelli che plaudono se a scuola si separano i bambini poveri da quelli che possono pagare la retta della mensa. Sono contrari a che venga concessa la cittadinanza a chi è nato in Italia, vive in Italia, parla solo italiano, ha amici italiani ma non è equiparato a noi, perché nato da genitori stranieri, non può fare un concorso, non ha un passaporto. Per averlo dovrebbe andare nel paese d’origine dei genitori ma non parla quella lingua, non ha più rapporti con quel passato. Quando poi si tratta di campioni sportivi però tutto si aggiusta, per nostra convenienza. Una medagli d’oro vale la cittadinanza!

Come dice Massimo Gramellini nella sua rubrica sul Corriere della Sera (22 novembre), Silvia avrebbe potuto lavorare alla mensa della Caritas in Italia e non rischiare di far pagare ai contribuenti una grossa cifra per il riscatto. Tutto vero. Infatti vale qualsiasi tipo di volontariato, ovunque lo si pratichi. Poi però spiega di non accettare “gli attacchi feroci a qualcuno che si trova nelle grinfie dei banditie di non “comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da avere dimenticato i propri vent’anni”. E aggiunge:Silvia Romano non ruba, non picchia, non spaccia. Non appartiene alla tribù delamentosi e tantomeno a quella degli sdraiati. La sua unica colpa è di essere entusiasta e sognatrice. A suo modo, voleva aiutarli a casa loro. Chi in queste ore sul web la chiama «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza“.

Ci sono anche i commenti di plauso: Claudio Marchisio scrive a Silvia

C’è anche chi ha parole di plauso per Silvia: “Oramai tra i nostri cittadini è prevalso il senso di odio per ogni senso di carità cristiana. Questa ragazza è da ammirare perché mette al servizio di chi soffre la propria gioventù, spero che venga rilasciata subito senza conseguenze”.

Un altro commento: “L’amore per il mondo, la voglia di aiutare i più deboli, l’amore per la vita spingono persone meravigliose come questa ragazza ad andare in Africa. Chi dice se l’è cercata non ha capito nulla, questi che giudicano vivono dentro ad una prigione dorata dalla quale temono di uscire, quelli che giudicano non si sono mai mossi dalle loro stupide comodità e ideologie limitanti. Saranno i giovani connessi con il mondo e la vita a cambiare le cose, le vecchie ideologie occidentali spariranno come polvere al vento!”

Il web ospita anche i commenti di personaggi conosciuti, tra i quali mi ha colpito quello di Claudio Marchisio, ex giocatore della Juventus ora in forza allo Zenit di San Pietroburgo. Il calciatore ha scritto a Silvia Romano attraverso il suo account Instagram e Twitter, pubblicando la foto in cui la giovane sorride: ”La violenza non può abbattere un sogno, perché ci sono valori che non potranno mai essere sconfitti. L’esempio di #SilviaRomano vola alto, sopra la tristezza dei pidocchi che la criticano. La nostra meglio gioventù che ci riempie di orgoglio. Ti aspettiamo presto Silvia”.

Nell’ultimo post prima di essere rapita che Silvia ha pubblicato sul suo profilo Facebook aveva scritto: “Non frenare l’allegria, non tenerla tra le dita, ricorda che l’ironia ti salverà la vita, ti salverà “.  Non ci vuole molto a capire che è una ragazza solare e positiva, che ama quello che fa e soprattutto è in grado di portare fiducia e speranza tra i bambini e le persone del villaggio in Kenya, dove ha deciso di vivere il suo volontariato.

Su la Repubblica del 22 novembre, Giobbe Covatta parla di sua figlia Olivia che a soli 21 anni ha scelto di fare la volontaria a Nairobi. “Ma non ce l’ho spedita contro la sua volontà. È colpa del fatto che, dal 1994, sono qualcosa di più di un testimonial per Amref, la più grande organizzazione sanitaria no profit attiva in Africa. Mia figlia Olivia è nata nel 1997 ed è cresciuta in un contesto in cui il volontariato è una questione di famiglia. È stato naturale per lei partire per il Kenya e andare a insegnare inglese ai bambini.”
Sono migliaia i giovani che fanno i bagagli e vanno a conoscere altri mondi, a mettere a disposizione le proprie conoscenze professionali con il volontariato. Cosa li spinge a fare questo passo?  Secondo Covatta la curiosità di conoscere il mondo, certo ma anche mettersi a disposizione dei meno fortunati, noi che abbiamo avuto la fortuna di nascere dalla parte ricca del mondo. “Occuparsi degli altri ti pone dinanzi a situazioni che ti restituiscono la misura reale delle cose, dei tuoi stessi problemi e angosce. (…) Viviamo in tempi paradossali di criminalizzazione del mondo del volontariato, come se dare una mano sia diventato un motivo di colpa. Non ho mai preteso o pensato che fare volontariato fosse nobilitante agli occhi degli altri, ma trovo fuori da qualsiasi logica che oggi sia quasi un motivo di colpa. Le parole hanno il loro peso. Fare oggi il volontario è quasi essere collaborazionista degli invasori. A proposito di parole, allora, bisogna chiedersi se davvero i migranti in fuga da guerre e povertà possano realmente dirsi invasori. Basta andare sul vocabolario. Non c’è mica da filosofeggiare sopra.”

Storie di volontari: li aiutiamo a casa loro

Francesca Sartori ha 26 anni, fa l’infermiera per Emergency in Sierra Leone, uno dei paesi africani flagellato da Ebola, la peggiore calamità del nostro tempo. Il virus si trasmette per via aerea. Basta respirare per ammalarsi. Lavora a Free Town, in un ospedale che vive di contributi spontanei, con soli 100 posti letto, tre sale operatorie e dove lavorano 20 tra medici e infermieri europei e circa 100 sanitari locali.  Perché sei andata in Africa? “È un’esperienza bella, ricca, formativa, stimolante. Dal punto di vista umano sono felice e realizzata: finalmente posso fare qualcosa di concreto in un posto dove il diritto alla salute e l’accesso alle cure mediche non sono garantite” si legge nell’intervista di Zita Dazzi e Cristina Nadotti pubblicata su la Repubblica. Del resto i critici dicono sempre di aiutarli a casa loro e quando questo succede non gli va nemmeno bene?  Non li dobbiamo accogliere e non li dobbiamo aiutare e quindi? Li lasciamo morire?

“Adesso sono arrivata “a casa loro” e assicuro che non è facile vivere in questa parte del mondo, con la paura di morire ogni giorno e la sanità che ti cura solo se paghi. Io qui, sento che è un mio dovere civile dare una mano a chi non ha avuto tutte le opportunità che sono state date a me”.

Leggo le critiche sulla scelta di Silvia e mi si stringe il cuore” dice Mariarita Ceccaroni di Piglio (Frosinone), appena rientrata dallo Yemen e in procinto di partire per la Colombia. “La prima volta che sono partita avevo 22 anni — la Ceccaroni ora ha 33 anni — per un’esperienza di volontariato in Etiopia con dei missionari laici. È allora che ho capito sarebbe stata la mia strada. Così una volta tornata ho preso una specializzazione in cooperazione internazionale e ho cominciato a lavorare con organizzazioni più grandi”. Adesso Mariarita lavora con Save the children, un’organizzazione molto attiva anche in italia e che prepara il suo personale in maniera molto attenta, non solo per le cure ma anche su come far fronte a eventuali pericoli esterni. “Una persona che si mette in gioco per salvare gli altri non è mai una persona leggera o irresponsabile — conclude Mariarita — il problema è che ormai si strumentalizza in ogni modo tutto ciò che riguarda il lavoro delle organizzazioni non governative“.

Sul sito di Oikos Onlus, un’associazione nata nel 2005 a Udine con il fine di promuovere e sostenere progetti nel campo della cooperazione allo sviluppo e della solidarietà internazionale, trovo la storia di Marta Miani. Svolge il suo volontariato nella Repubblica Democratica del Congo. “Primissima esperienza in Africa e primissima esperienza in un contesto difficile come quello della pediatria. Il mese che i miei compagni di avventura ed io abbiamo passato nel cuore dell’Africa, è stato intenso e ricco di forti emozioni che personalmente, non avevo mai provato in vita mia. Una pediatria di quasi 500 bambini di tutte le età, la maggior parte di loro sono orfani, malati e portatori di handicap ma tutti quanti hanno una sola cosa in comune: un sorriso enorme stampato sul viso che toglie il fiato e scalda il cuore. Difficile sarà dimenticare le giornate passate con loro. Purtroppo la realtà della pediatria non è facile…non basta un solo educatore per ogni casa per soddisfare tutte le loro piccole richieste perché hanno bisogno di molte attenzioni, carezze, abbracci, momenti di gioco e i più grandi, per esempio hanno bisogno di parlare e confrontarsi con qualcuno sulle loro ambizioni, sui loro sogni o ciò che amano di più fare. I primi giorni, se devo essere sincera, mi sono sentita un po’ male, psicologicamente parlando ovviamente. Vedere tutti questi bambini che trasformano banalissimi oggetti, come per esempio un fazzoletto di carta, in un giocattolo e quindi si divertono da morire, fa riflettere molto. Credo che non si possano paragonare ai bambini che abbiamo in Italia. Sono su due mondi completamente diversi. Sono bambini speciali…Se avessi avuto l’opportunità me li sarei portata a casa tutti quanti!”.

Vuoi fare del bene e alla fine scopri che lo fai a te stesso

Andrea e Selina Faccin sono una coppia di 31 e 26 anni, attendono un bambino, ma hanno deciso di continuare a vivere in uno dei quartieri più disagiati di Bujumbura, nel Burundi, almeno fino al 2020. Seguono un progetto di formazione professionale e inserimento nel lavoro, interventi a lunga scadenza. “I giovani che come noi fanno questa vita, non si muovono in base all’emotività del momento e per una smania di altruismo. Chi è qua, lo fa perché si mette in gioco personalmente in situazioni complesse e imprevedibili. Ma rispettando sempre le regole di sicurezza per non correre pericoli, avendo presente il rischio inevitabile dell’evento eccezionale. (…) Si incontrano volti e storie in cui ti viene chiesto di mettere un po’ di te. E la cosa interessante è che questo è un modo sia di aiutare il prossimo, sia di scoprire una parte di noi stessi”.

Ancora Marta Miani, pediatra in Congo, ci parla della disorganizzazione in cui si è costretti ad operare. Le organizzazioni ricevono moltissimi aiuti dall’Europa ma la gran parte sono cose superflue o inutili. La gente fa la generosa spedendo in Africa quello che dovrebbero buttare via.

“Principalmente arrivano vestiti, vestiti e ancora vestiti! Un giorno abbiamo visitato il magazzino dove vengono depositate tutte le donazioni. Penso di non aver mai visto una stanza piena di scatoloni tutta in disordine come quella. Nelle scatole oltre ai vestiti, c’era un sacco di cibo scaduto, scarpe, giochi, occhiali da sole, bambole e tanto altro…Mi domandavo dove cavolo è il responsabile del magazzino? C’è ma è come se non ci fosse. La formazione manca. Bisogna assolutamente organizzare dei corsi di formazione per il personale, almeno per insegnare come si fa un banale inventario delle donazioni che arrivano! E per tutte le persone che stanno leggendo questo mio appello chiedo gentilmente di non spedire più vestiti perché credetemi, ce ne sono troppi!! Piuttosto spedite donazioni in soldi per finanziare quello che serve realmente ovvero pannolini, corsi di formazione per il personale e macchinari sanitari per i reparti dell’ospedale.”

Federica Citterio è coordinatrice dei progetti perMedici con l’Africa – Cuamm” a 29 anni ne ha già alle spalle 8 di esperienza. Lei opera nel Sud Sudan una zona pericolosa per via della guerra. “I rischi ci sono sempre, ma il Cuamm mi tutela con un’organizzazione e norme da rispettare: abito in un compound protetto da personale di sicurezza, non mi devo mai spostare da sola, prima di raggiungere avamposti si deve sempre contattare il personale locale”. Riguardo alla realtà italiana e alle incomprensioni di cui questi giovani si sentono vittime da parte di chi crede di sapere e invece non sa nulla afferma: “Ci danno degli irresponsabili ma chi lo fa non ha la minima idea di come lavoriamo. La mia è stata una scelta professionale, avevo studiato da infermiera e poi dopo tre mesi in Brasile ho capito che volevo specializzarmi, così ho studiato per il master in cooperazione internazionale. Ora gestisco e coordino progetti legati alla salute pubblica”.

La soddisfazione è vedere uno che ce la fa grazie a te

Lorenzo Ciullini e Martina Fanna, venticinque anni, neo laureati in medicina, decidono di aiutare il prossimo ed entrano a far parte del multiforme esercito di volontari che, attraverso centinaia di Ong, di Onlus e associazioni, si mette in viaggio verso le periferie del mondo. C’è chi resta un mese, chi tutta la vita. A volte in modo organizzato, a volte in modo confuso, a volte rischiando la vita. Lorenzo ha scelto di specializzarsi in malattie infettive proprio dopo aver conosciuto l’Africa, mentre Martina studia chirurgia pediatrica al “Necker” di Parigi: “La decisione di fondare “Speranza Tanzania” Martina ed io l’abbiamo presa alla fine di un’estate ad Arusha, in un piccolo ospedale nel Nord del paese dove mancava tutto, i farmaci, i letti, e le persone morivano così, perché magari saltava la corrente e si staccano i respiratori. Devo dire che la sensazione di impotenza era fortissima. Ma soprattutto ci siamo resi conto che al “Nkoaranga Hospital“, ciò che mancava più di tutto erano i medici veri, specializzati, in grado di salvare vite, le università hanno costi proibitivi, quasi nessuno può permettersele». Così tornati in Italia Lorenzo, Martina e Daria Di Filippo, giovane ostetrica, creano il blog “Speranza Tanzania” (oggi parte del progetto “Studenti senza frontiere”) e iniziano a raccogliere fondi per creare delle borse di studio. «La nostra più grande soddisfazione è stato poter sostenere a Dar Es Salaam l’università di Emmanuel, un brillante studente che ad agosto del 2016 diventerà medico. E adesso sta per partire la seconda borsa di studio”.

Alba Carpineti anno dopo anno decide di restare in Senegal, questa esperienza le ha cambiato la vita. Qui ha conosciuto Fabrice, il suo compagno e il piccolo Murtala, di cui è “mamma di fatto”. Rimane per la sfida di poter salvare decine di neonati destinati a morte certa. “Vivevo a Bologna, e una mia amica mi propose di andare a dare una mano in un orfanotrofio in Senegal gestito da una Ong francese. Dovevo restare un mese, invece…Ho iniziato ad occuparmi di questi piccoli, biberon, pannolini, via via ho imparato, sono figli di donne poverissime che muoiono di parto, ma nessuno può sfamarli se manca il latte materno, noi li nutriamo, li curiamo, li portiamo allo svezzamento, e poi quando è possibile li restituiamo alle famiglie d’origine. Per quei pochi di cui si certifica l’abbandono inizia l’iter adottivo”. Abbandonato il lavoro nella Ong francese ha lanciato l’Onlus “La forza del sorriso” per aprire, dal 2016 una nuova “pouponierre” (vivaio) per neonati. “Quando vedi che si muore perché manca un antibiotico e sai che puoi fare qualcosa non te la senti più di tornare indietro…E poi Murtala adesso ha iniziato la scuola, devo raccogliere fondi per costruire la nuova Casa del Sorriso, la mia vita ormai è qui”.

Ancora Marta Miani, nel suo diario, racconta il momento del commiato dalla sua comunità congolese. Forse da queste poche parole si può capire quale sia il valore di una esperienza simile più di tanti discorsi: Ho ancora impressa l’immagine dell’ultimo saluto. Caricati i bagagli nell’ambulanza, diamo gli ultimi abbracci ai bimbi, iniziamo a salire e insieme a noi volevano salire anche loro. Chiudiamo le porte, l’ambulanza parte…i bimbi iniziano a correre e inseguono l’ambulanza per un lungo tratto, sbracciandosi per darci l’ultimo saluto e in tutto questo noi urlavamo “Mbayo” (arrivederci in lingala) a squarciagola con gli occhi gonfi di lacrime…così abbiamo lasciato la pediatria di Kimbondo, piccola isola felice dispersa tra le colline della grande Kinshasa. Non ringrazierò mai abbastanza OIKOS e il mio caro comune di Pradamano per l’opportunità che mi hanno regalato…il mio piccolo sogno nel cassetto si è realizzato grazie a tutti voi…GRAZIE!”

Carlo Raspollini

Autore e regista televisivo, responsabile marketing, consulente gastronomo e dello spettacolo, viaggiatore.

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